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Quaderni

Pop/Rock un anno dopo
Un quaderno di conversazioni

 

Mauro Pagani

con Sergio Lattes



Mauro Pagani: musicista, produttore, arrangiatore. Gli piace definirsi “musicista di facili costumi che ha lavorato con un sacco di gente”. Fra i quali è obbligatorio citare la Premiata Forneria Marconi e Fabrizio De André, oltre molti altri.


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Molta improvvisazione, e molta conoscenza”. Il messaggio è convinto, insistente, appassionato. Una volta trovato lo spazio nell’agenda densa di Mauro Pagani, lui si concede con semplicità, con passione appunto, senza risparmiarsi, senza guardare l’orologio. Alla fine sarà passata quasi un’ora, si è parlato di tutto, ma i due temi – improvvisazione come spazio per la creatività di chi suona, ascolto e conoscenza della musica la più ampia possibile come pre-condizione – sono stati il motivo conduttore della conversazione. E ci hanno condotto, partendo dal “nuovo” corso accademico di Pop-Rock nei Conservatori, fino ad approdare all’idea – radicale, suggestiva - che il Pop-Rock (e così il Jazz) possano, anzi dovrebbero essere non “corsi di laurea” a sé stanti ma componente indispensabile della formazione del musicista. Di un unico musicista, le cui competenze attraversino tutti gli stili. Riportando così la dimensione improvvisativa – la composizione istantanea, come lui preferisce definirla - nel curriculum di tutti gli studenti di musica.


L’improvvisazione/composizione istantanea è dunque il punto di partenza del suo discorso.
“Questa iniziativa riporta dentro l’istituzione accademica la dimensione improvvisativa. Intendiamoci, non ho nessuna intenzione di contrapporre la musica pop/rock alla classica intesa come “vecchia” o “da superare”. Ho il massimo rispetto per la musica classica, e per i musicisti che la praticano. E ne ho frequentati parecchi. Mi è sempre sembrato, però, che ciò che più mancava loro fosse l’abitudine all’improvvisazione, anzi preferisco dire alla composizione istantanea. Con tutto il rispetto per l’esecuzione – ci mancherebbe altro – ho avuto tante volte la sensazione di una mortificazione del talento, della creatività personale, nel dover “suonare solo le note scritte”, per di più misurandosi con gli obblighi di una determinata tradizione esecutiva piuttosto che un’altra. Ho visto persone come nevrotizzate, fino a suonare ingoiando pillole, per l’ansia da prestazione collegata a questi obblighi. E ho visto musicisti, straordinari nell’esecuzione, rimanere incredibilmente spaesati se si trattava di improvvisare quattro note. E non credo che si tratti di una vera incapacità. Ma piuttosto di mancanza di un’abitudine, perché l’improvvisazione non è oggetto di insegnamento”.


Eppure l’improvvisazione rende migliore l’esperienza musicale, rende migliore la vita del musicista. Se è vero che la musica è la seconda lingua in cui ogni cultura si racconta - non conosci fino in fondo la Spagna se non conosci il Flamenco, e così il Fado per il Portogallo – è anche vero che la musica è la lingua cui ogni civiltà delega l’espressione del mondo irrazionale, del mondo delle emozioni, quello che non si può descrivere con le parole. Recuperare la dimensione improvvisativa significa ri-annodare la relazione stretta fra musica come linguaggio e mondo emotivo delle persone. La passione, la lena di chi lavora sulla musica ne vengono raddoppiate. Un rispetto forse troppo astratto per i capolavori del passato, una sorta di idolatria, hanno prodotto il paradosso che dopo aver studiato dieci anni per poter suonare bisogna poi fare un altro corso di dieci anni – anche se in parte lo si fa contemporaneamente – per poter conquistare il “diritto” di esprimersi in musica. O meglio per imparare a scrivere come due secoli fa: il che va benissimo, s’intende, se poi c’è anche la possibilità di esprimersi al presente. Fra l’altro, quei dieci anni sono gli anni migliori della giovinezza, della stagione creativa di una persona”.


Ma in che “lingua” ci si esprime improvvisando? Pagani è ben consapevole dei limiti dell’improvvisazione “in stile”. Anzi, a questo proposito sostiene una tesi radicale sul Jazz, che pure sembrerebbe il luogo dell’improvvisazione per eccellenza.
“Il Jazz è conservatore. Perfino più della musica classica. Improvvisare bebop, per dire, è come improvvisare in stile madrigalistico: il bebop è un linguaggio del passato, una lingua morta. Certo, bisogna studiare i linguaggi del passato, e a fondo. Ma insegnare bene i linguaggi significa insegnare ad affrancarsene. L’improvvisazione dev’essere fonte di espressione personale”.


Siamo quindi venuti alla questione di cosa sia il Pop/Rock, di che cosa significhi l’etichetta scelta per il nuovo corso accademico.
“L’identità è difficile da definire. Si va, per dire, da Jimi Hendrix ai Radiohead a Claudio Baglioni. Certo, ci sono degli stilemi di fondo: il ritmo (nella musica classica la percussione è colore, non vincolo ritmico), gli organici ridotti a quegli strumenti ricorrenti, la scala blues con i quarti di tono sul 3° e 7° grado fra maggiore e minore, la ricorrenza delle pentatoniche. Il rischio è che tutto si riduca a pochi stilemi semplificati, quei quattro accordi del giro di do, le 12 misure del giro blues: quel poco che si impara nelle mille scuole che ci sono in giro. In realtà pochissimo è codificato, gli stili individuali sono infiniti, molto più che nella classica. Perciò credo che una formazione di qualità debba essere, vorrei dire, molto colta. Cioè molto ascolto, molta conoscenza della musica”.


Perciò, ancora, preferirei chiamarla Musica popolare del ‘900. Il Pop, il Rock sono delle filiazioni particolari. In realtà tutto si è svolto in quei magici trent’anni fra il 1954 e il 1984 (del ‘54 è Rock around the clock, “ufficialmente” il primo Rock and Roll). E’ lo stesso periodo in cui è stato introdotto il sintetizzatore, l’unico strumento musicale veramente nuovo degli ultimi 100 anni. In quel periodo si è generata l’identità profonda della musica popolare del ‘900. Che non sta neppure negli strumenti: i Beatles talvolta suonavano con chitarra classica e orchestra. Ma il sostrato è complesso: c’è dietro la canzone napoletana – più di quanto si pensi. C’è la musica irlandese, c’è la musica delle chiese protestanti, da cui si sono generati il gospel e il folk americano”.


Dunque l’insegnamento del Pop/Rock, se è un insegnamento di qualità, non è più semplice o più superficiale dell’insegnamento della musica classica. Magari c’è un po’ meno tecnica, ma ci dev’essere – torna ad insistere - molto ascolto, molta conoscenza della musica. Ci vogliono insegnanti molto preparati ”.


Come si può creare ex novo un insegnamento accademico di questo mondo musicale? La risposta di Pagani torna sugli stessi temi, sulla stessa etica.
“Bisogna difendersi da un insegnamento riduttivo, scadente: esattamente come nella musica classica. Questo mondo è infinitamente variegato, occorre conoscere, conoscere molto. Occorre formare i futuri insegnanti, insegnando uno spettro di linguaggi il più ampio, insegnando a improvvisare, insegnando ad ascoltare il più possibile. Questa può essere un’opportunità di rinnovamento per l’intero Conservatorio”.


Ed ecco che questa considerazione porta il discorso ad allargarsi. Il rinnovamento, il ritorno dell’improvvisazione da cui eravamo partiti, non devono essere relegati in un corso, lasciando inalterato tutto il resto. Si può pensare a un unico musicista polivalente, capace di attraversare tutti gli stili, anziché a un dottore in Pop/Rock?
“Sì. E’ necessario che queste materie, questo atteggiamento entrino davvero nella formazione accademica del musicista, di ogni musicista. Dev’essere l’occasione di fare un insegnamento veramente contemporaneo: capire il passato, capire il presente, sapersi esprimere suonando.
Il Conservatorio dovrebbe fare qualcosa di radicalmente diverso da ogni altra scuola. Dovrebbe fin dall’inizio, dai giovanissimi, insegnare subito insieme tecnica, Gradus ad Parnassum, Blues. I programmi sarebbero così polivalenti fin dall’inizio. A tutti si dovrebbe insegnare a improvvisare. E naturalmente, professori all’altezza di questo compito. Dunque un unico corso integrato: la separazione arriverà a livello di specializzazione, cioè molto dopo”.


Gennaio 2019

 

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