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INTERVENTI


 

Nonostante tutto, ci credo ancora

a colloquio con Claudio Proietti, direttore del Conservatorio di Genova

  

Claudio Proietti è direttore da pochi mesi di un istituto vivace e vitale, cui afferisce un territorio molto vasto, buona parte della Liguria. Il suo punto di vista è particolarmente interessante anche in quanto è "novizio", e come tale osserva sia il ruolo che si trova a svolgere il direttore elettivo, sia il quadro nazionale del quale è appena entrato a far parte.
 

A pochi mesi dal tuo insediamento come direttore, quali sono le tue impressioni sulla situazione generale del sistema dei Conservatori e della sua riforma? La conferenza dei direttori è un punto d’osservazione privilegiato?

La prima impressione di questi mesi è di precarietà e d’incertezza riguardo alla direzione in cui va il sistema. La conferenza dei direttori non si sottrae a questo dato. Anzi. Il direttore è uno specchio “selettivo” nei confronti dei suoi docenti, nel senso che, avendo la responsabilità di organizzare il funzionamento quotidiano, di istruire delibere e processi decisionali, di organizzare attività, deve proporre alla sua istituzione un’idea, una rotta su cui andare. Ma dall’osservatorio della conferenza il senso di disorientamento e di divaricazione negli indirizzi che le istituzioni stanno prendendo è abbastanza forte.

E’ vero, ed è un punto fermo e importante, che c’è il nuovo impianto degli studi, e che il triennio è andato a regime. Ma al contempo ci sono dei segnali contrastanti che creano questo disorientamento. Il disegno di legge (S. 1693) approvato dal Senato il 30 novembre scorso – e non ancora dalla Camera – mina alla base l’equivalenza del titolo di primo livello al vecchio diploma e sbilancia il senso formativo dell’articolazione 3 + 2. Metti questo dato insieme con un altro: ci sono Conservatori in cui i professori non fanno lezione agli allievi dei corsi pre-accademici, i quali vengono affidati a dei docenti a termine assunti ad hoc e pagati pochissimo. Questi due indizi, insieme a tanti altri, danno l’impressione di una sorta di frantumazione del sistema e di chiusura di ciascun istituto nelle proprie mura e nel proprio “particulare”.

Penso che a causa delle modeste dimensioni del comparto e della sua perifericità saremo gli ultimi a sentire i benefici di un qualche cambiamento di registro che il nuovo governo potrebbe mettere in atto. Mi augurerei che come settore possiamo nuovamente avere un sottosegretario di riferimento, che possa guardare da vicino e prendersi cura di questo particolare settore. La confusione e la fuga nel “particulare” di cui parlavo sono state generate da una mancanza d’indirizzo. E un indirizzo non può venire che dal governo.


Citavi la legge approvata dal Senato come un segnale contradditorio.

Penso che siamo in un momento di transizione da un ordinamento all’altro, di riorganizzazione delle priorità formative. Un momento in cui la formazione pre-accademica, anziché una palla al piede o un ghetto da affidare a docenti esterni, dovrebbe essere vista come una risorsa, un’opportunità di ripensamento di modelli didattici che vanno rinnovati e arricchiti. Sarebbe stato estremamente sano e stimolante occuparsi di queste cose. Vedo invece venire avanti delle priorità che suonano vecchie. Di tutto ci si occupa, fuorchè dei contenuti. Prevale la preoccupazione che l’Università si appropri della prerogativa di conferire il titolo anche per gli insegnamenti musicali, e che la nostra “categoria” sia svilita a livello di “tecnici”. Anche l’art. 7 della legge, quello che istituisce i “Politecnici delle arti”, viene inteso da molti nel senso di creare degli aggregati che possano controbilanciare il peso dell’Università e contrastare la fatale attrazione del sistema Afam in quello universitario. Personalmente non vedo nell’Università tutto questo desiderio di divorarci.


Un certo contrasto fra Conservatori e Università è effettivamente esistito, per esempio sulla titolarità della formazione degli insegnanti per la scuola.

Certo: quello è il vero  punto di attrito. E sulla didattica generale la sensazione è che abbiano vinto, parlo della formazione per le classi A31 e A32 (educazione musicale). A noi rimarrebbe la formazione per la classe A77, cioè l’insegnamento dello strumento nelle scuole a indirizzo. Il Conservatorio ha però, ed è nuovo, il Triennio a indirizzo didattico. I cui studenti potranno poi scegliere se continuare in Conservatorio verso l’insegnamento dello strumento – quando il Ministero autorizzarà la ripartenza del nostro biennio didattico, o andare all’Università per formarsi verso l’educazione musicale generale. Nel disegno di legge approvato al Senato c’è la previsione tout-court che Conservatorio e Accademie formino tutti gli insegnanti della scuola generale, ma alla luce di quanto sta succedendo mi sembra un’indicazione un po’ illusoria.  

Tralascio altri aspetti del disegno di legge che mi sembrano strani, fra cui quello che indica “una comprovata esperienza delle Fondazioni lirico-sinfoniche” come titolo per l’accesso all’insegnamento del Canto nei Conservatori. Da noi si accede all’insegnamento sulla base della valutazione dell’attività artistica: sarà sostituibile da un certificato di servizio nel coro di un teatro?


Tuttavia questo disegno di legge è stato approvato da un ramo del Parlamento, e lo hanno presentato senatori di diverse parti politiche.

C’è una forte pressione sindacale. E c’è evidentemente una certa difficoltà di comunicazione fra parlamentari e tecnici che lavorano nelle istituzioni. L’avvenuta equiparazione delle vecchie lauree quadriennali alla quinquennale è impropriamente invocata come precedente. Il nostro ordinamento non preesisteva come quello universitario, è nato ex novo. E più volte e in sedi ministeriali è stato riaffermato – suscitando legittime aspettative negli studenti - che il diploma triennale sostituiva il “vecchio” titolo, e il biennio sarebbe stato una fascia completamente nuova. Perché del resto sarebbero tornati a scuola tanti diplomati già in attività e in cattedra, se non per conseguire un titolo ulteriore? Non certo per avere un doppione del titolo che già avevano conseguito....Ricordo anche che il dipartimento cultura del Servizio studi della Camera ha formulato un ampio documento che contesta radicalmente gli assunti del disegno di legge.


Ma tornando a parlare della riforma.....

Sul tavolo c’è lo schema di DPR sulla programmazione, riequilibrio e sviluppo del sistema, e sul reclutamento del personale: cioè il pezzo che manca all’attuazione della 508. E’ fermo dal tempo di Dalla Chiesa, ora se ne sente parlare come imminente: speriamo, ma ancora non sappiamo se e come come sarà modificato. La legge 508 prevede il riordino e l’accorpamento delle sedi. Ci sarà un numero minimo di studenti per la sussistenza di ogni istituzione, e sarà il medesimo delle scuole ordinarie? Sarà determinante il rapporto fra studenti ordinamentali e allievi dei corsi pre-accademici? Non sono cose da poco.

Seconda questione, le procedure di valutazione. Sembra che in tempi brevi anche noi saremo valutati dall’ANVUR. Anche questo non è senza interrogativi. Su quali parametri ci valuterà? Se fossero gli stessi dell’Università (del tipo: rapporto numerico fra docenti e studenti, fra iscritti e laureati, costo per studente, costo per ora di lezione, e simili) rischieremmo di essere fortemente penalizzati. Nell’ANVUR  non c’è rappresentanza del nostro comparto. C’è un componente che è un musicologo di chiara fama, che però è da sempre ed esclusivamente partecipe del mondo universitario. Non può essere certamente inteso come “rappresentante” dell’AFAM in quell’organismo. Sottolineo che la conferenza dei direttori ha chiesto che venga istituita un’agenzia di valutazione specifica.


Abbiamo parlato di cose che non vanno. Veniamo a quello che si può fare.

Dobbiamo intanto farci forza di quello che abbiamo: razionalizzarlo, e farlo funzionare al meglio. Forse non è male che ciascuno si costruisca in autonomia i propri programmi, definisca i propri modelli didattici e organizzativi, una volta che l’approvazione centrale garantisca la conformità agli standard europei. C’è una grande sfida da fronteggiare: appare ormai prossimo il riconoscimento della titolarità di un gruppo di istituzioni private a rilasciare i titoli dell’alta formazione musicale (come la Scuola di musica di Fiesole, l’Accademia pianistica di Imola, l’Accademia musicale pescarese, le Scuole civiche di Milano, l’Accademia della Scala. Oltre a Siena Jazz che lo ha già ottenuto. Per noi è certamente una sfida, anche se sembra imminente la de-legalizzazione dei titoli di studio. Resta il fatto che il sistema universitario ha acquisito da molto tempo il principio della parità pubblico-privato, e ci sono Università private che hanno eguale se non maggior prestigio di Università pubbliche. Dicevo sfida, perché da noi il ramo pubblico nel confronto sembra azzoppato: i privati hanno mano libera nello scegliere i docenti, e nel remunerarli. Vedremo se col nuovo regolamento i Conservatori avranno più libertà nello stipulare i contratti, visto che il personale in ultima analisi sarà tutto a contratto.


A questo proposito, suscita molta perplessità l’idea di un sistema privo di personale stabile. Fa pensare a qualcosa che si possa smantellare in ogni momento.

Sono d’accordo. La storia che anche nelle Università americane ci sia solo personale a contratto è una favola. Ci sono perfino professori a vita, dico a vita, e buona parte del corpo docente è stabile. Un sistema pubblico ha bisogno di persone intorno a cui incardinarsi. Che poi i meccanismi di selezione del personale possano essere diversi e migliori, è altra cosa. Però le nostre istituzioni hanno anche bisogno di personale a contratto, per coprire esigenze specifiche o temporanee, e in questo senso sarebbero anche utili le cosiddette “mezze cattedre”. Visto che gli organici sono numericamente immutabili, queste potrebbero essere uno strumento di flessibilità nella programmazione didattica, oltre che favorire l’occupazione dei docenti.


A oltre dodici anni dall’inizio di questo interminabile processo di riforma (dopo dodici anni si dovrebbe poter fare il bilancio di una riforma, e non avere ancora da attuarla...) si ha l’impressione che ci si sia molto occupati dell’involucro, dell’architettura curricolare, delle “griglie”; ma che il sistema nel suo complesso (cioè in definitiva i docenti) abbia espresso assai poche spinte al rinnovamento dei contenuti, dei metodi, insomma della carne viva della didattica. Detto in altre parole, si ha l’impressione che il convincimento più diffuso fra i docenti sia quello che il sistema andava bene com’era, che la riforma sia nata solo da un vincolo esterno/internazionale, e che lo scopo primo debba essere quello di minimizzarne i danni. E’ questo il ritratto più fedele del nostro corpo docente?

Probabilmente è vero che questa opinione sia molto diffusa. Io sono un po’ pessimista se parliamo della percezione del proprio ruolo che il docente ha nella nostra struttura – salvo tante eccezioni ovviamente. Parlo, per esempio, del modo con cui si continua a custodire gelosamente la “monarchia” sui propri allievi, frustrando per principio lo sviluppo di modelli di pluridocenza. Oppure - se vogliamo peggio ancora - parlo dell’idea, molto più diffusa di quanto si creda anche se spesso non del tutto consapevole, che il docente abbia il compito e lo scopo di replicare se stesso nell’allievo. E’ un’idea stanca, e pericolosa. Aggiungo, e so di dire cosa spinosa, che la certezza assoluta di conservare in eterno, senza riscontro alcuno, il proprio posto di lavoro c’entra in qualche misura, e la considero nociva. Non penso di contraddire quello che ho detto prima sulla necessità di personale fisso: alcune figure-perno sono indispensabili, ma devono essere qualitativamente indiscutibili.

Però sono ottimista nel senso che penso che la riforma si stia facendo, nonostante una diffusa inerzia da parte di molti docenti. E si stia facendo sulla base della necessità sincera, profonda e vitale sentita da una serie di persone che da decine di anni stanno lavorando e elaborando su questi argomenti. Che hanno saputo disegnare delle ipotesi didattiche – certo da sperimentare, certo da verificare – che sono effettivamente innovative. E’ pacifico che a livello di singole discipline c’è chi continua a fare le stesse cose che fa da trent’anni, e potrà continuare a farlo. Ma il disegno complessivo della formazione è cambiato, eccome. Per quel che vedo, chi fa il triennio e il biennio ora, fa un’esperienza musicale che non è paragonabile a quella che abbiamo avuto noi ai nostri tempi. E i riscontri vengono dai ragazzi, e sono molti e chiari. Sono dunque cose che segnano veramente un passaggio. Certo vorremmo che fosse più palese, più diffuso, ma un frutto c’è. Purtroppo nel nostro ambito è un frutto che deve trovarsi da solo lo spazio per crescere, non c’è una serra intorno a lui che lo protegga e lo aiuti a maturare. Ma dico: se guardo ai ragazzi, sono abbastanza ottimista. E se ho un rammarico, da sessantenne, è solo quello che forse non riuscirò a vedere il frutto compiuto.


Che cosa pensi della “cattiva stampa” che circonda i Conservatori italiani ogni volta che se ne parla sui giornali, specie quando sono interpellati dei personaggi molto noti?

Può darsi che io abbia una conoscenza troppo limitata, visto che da molti anni insegno e frequento solo il Conservatorio di Genova. Tuttavia questo sfacelo non lo vedo. Credo che il catastrofismo sia qualche volta interessato. Certo è vero che alcune istituzioni private di altissimo livello funzionano come dei perfezionamenti per i diplomati dei Conservatori, ma questo avviene appunto solo per alcune sezioni d’eccellenza, che peraltro in tanto possono funzionare così in quanto i Conservatori formano i giovani che poi vanno da loro. Certo un catastrofista potrebbe ipotizzare uno scenario in cui i Conservatori facciano la formazione di base – visto il minimo risultato del liceo musicale, non c’è altro – e le Accademie private facciano l’alta formazione.

Ma è questo che vogliamo?


a cura di Sergio Lattes
marzo 2012

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