Intorno a un articolo di Alex Ross sul Guardian
Bach e Ligeti possono
dialogare?
di Roberto Iovino
giornalista, critico musicale
Gli articoli di Alex Ross e
Alessandro Baricco affrontano un tema di particolare interesse, sul quale si è
dibattuto molto in questi anni, il rapporto fra il pubblico e la musica “colta”
del nostro tempo. Ha ragione Ross nel notare come ci sia assoluto bisogno di
creare nuovi ponti fra la tradizione e la contemporaneità, nella consapevolezza
che rendere familiari Ligeti e Berg può portare a scoprire inedite dimensioni
anche in Mozart e in Beethoven. Reinventare una modalità di ascolto e di
avvicinamento alla musica, insomma, “vecchia” e nuova.
Mi permetto di non
condividere, tuttavia, alcune delle cause espresse nel suo stimolante intervento
da Baricco che invita a non fare più “minestroni”, mescolando nello stesso
programma Bach, Boulez e Brahms... Il problema centrale è quello della presunta
continuità o discontinuità. C’è una rottura fra il tardo Ottocento e il
Novecento? Certamente a noi sembra di sì. Analogamente pareva discontinua
rispetto alla tradizione la produzione madrigalistica di Gesualdo da Venosa,
così densa di dissonanze oppure l’originalità creativa di Monteverdi che tanto
scandalizzava Artusi; e la Grande Fuga op. 133 di Beethoven lasciò di stucco non
solo gli ascoltatori, ma gli stessi primi interpreti. La musica “colta” odierna
ci appare ostica essenzialmente in rapporto alla coeva musica commerciale. In
passato (pensiamo alla musica “leggera” fra XIX e XIX sec., alle liriche di
Tosti, ma anche al cabaret di Weill, Schoenberg e Satie) fra i repertori di
destinazione diversa c’erano differenze, ma con comuni matrici linguistiche. Il
passaggio dall’Ottocento al Novecento è stato traumatico, ma si è compiuto nel
senso di una coerente continuità di ricerca e di sperimentazione. Non a caso
Schoenberg indicò in Brahms (“Brahms il progressivo”) uno dei padri (con
Mahler) della musica moderna. Dove si può, dunque, tirare una linea di confine
fra un vecchio e un nuovo che non possono dialogare? Difficile dirlo perché ci
manca ancora la prospettiva storica e perché, al di là della atonalità, della
tonalità, della modalità, molte delle tecniche costruttive odierne (il
contrappunto, la variazione ecc.) sono figlie di una antichissima tradizione.
Schoenberg rompe con il passato? Assolutamente no. Webern? Certamente compie
passi decisi in avanti, ma il suo linguaggio nasce da Schoenberg. E Stravinskij?
Si può negare un legame con la tradizione a un balletto eufonico come “Apollon
Musagete”? Il problema principale forse sta nell’errato “consumo” che si è
fatto in questi decenni del Novecento, tagliando nettamente intere generazioni
che costituivano il ponte di passaggio fra realtà oggi così diverse. Chi ascolta
più, per limitarci alla musica italiana, Casella, Malipiero, Pizzetti? Quanto
Dallapiccola o Petrassi si propone nei nostri Teatri? Oggi si passa da Brahms a
Ligeti dimenticando due o tre generazioni che hanno vissuto e sofferto sulla
propria pelle la crisi del linguaggio.
Non sono, infine, d’accordo
sul rischio del “minestrone” cui allude Baricco. E’ più pericoloso confinare la
musica contemporanea (come si è fatto per molto tempo negli anni Sessanta) in un
ghetto: alle performance andavano, allora, quattro o cinque intellettuali
(sempre gli stessi) e gli organizzatori avevano vita facile a dire che il
contemporaneo non interessava.. Mescolare (naturalmente con un minimo di
criterio) vuol dire “costringere” un pubblico un po’ più ampio ad accostarsi al
nuovo. Certo occorre insistere, avere idee nuove come sottolinea Ross. E magari
riflettere sul ruolo che una solida educazione musicale nelle scuole potrebbe e
dovrebbe avere nella comprensione della musica, di qualunque epoca e di
qualunque stile.
febbraio 2011
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