HOME PAGE
 
 CHI E PERCHE'
 
 INTERVENTI
 
 DOCUMENTI
         - noi e l'Europa
         - dall'Italia
         - dalla stampa
         - oltre la musica
            (documenti e articoli
             d'interesse generale)
         - appuntamenti
 
 DIDATTICA
 
 RISORSE
 
 ARCHIVIO
 
 MAPPA
 
ASSOCIAZIONE PER L'ABOLIZIONE DEL SOLFEGGIO PARLATO
L'alta formazione musicale in Italia

Quaderni

 

UN ESTRATTO DA:

François, Pierre, 2004, “Qu’est-ce qu’un musicien? Professionels et amateurs” in Nattiez, J.-J. (dir), Musiques, Une encyclopédie pour le XXIème siècle. Volume 2: les savoirs musicaux, Paris/Arles, La cité de la musique/Arles, p. 585-611

Traduzione di Sergio Lattes

Il documento originale si trova a: pierrefrancois.wifeo.com › documents › Encyclopdie

NB: I riferimenti bibliografici citati nel testo tradotto si trovano in calce al documento originale.



Cos’è un musicista? Professionisti e amatori


In campo artistico più ancora che altrove, non è agevole tracciare una linea certa fra l’amatore e il professionista. Si ritiene in generale che il professionismo corrisponda all’esercizio di un mestiere, fondato su una competenza di cui la remunerazione sia sufficiente ad attestare l’esistenza. Mentre l’amatorialità sia di conseguenza definita, in qualche misura negativamente, come “un’attività praticata per diletto, con fini personali o per una cerchia prossimale ristretta” (Donnat, 1996, p. 123). Queste definizioni schematiche e nette non possono rappresentare che un punto di partenza, che l’analisi deve affinare e precisare. Vorremmo avvicinare questa discussione provando a identificare, nei rapporti fra l’amatore e il professionista, i nodi economici e sociali più problematici.

Iniziamo col sottolineare che la riconciliazione del mondo dei musicisti professionisti con l’universo della musica amatoriale non è affatto scontata. In effetti, nella definizione dell’identità sociale del musicista amatore e del musicista professionista, l’analisi dovrà mettere in risalto ciò che li unisce - la pratica musicale - oppure ciò che li separa? In altri termini, il musicista amatore ha a che vedere in primis con il musicista professionale, oppure con l’insieme degli amatori che si dedicano alla pratica di altre attività culturali – il pittore, lo scrittore, l’attore amatoriale? E’ evidentemente necessario lasciare aperta la questione di sapere se la pratica professionale e quella amatoriale della musica partecipino di un mondo comune.

Ma la questione dei rapporti fra l’amatore e il professionista merita anche di essere posta da un punto di vista più teorico. Fra le molte accezioni di questi due termini si può, con Bourdieu (1984), individuare due posizioni contrapposte. Secondo l’una, l’amatore costituirebbe una sorta di versione degradata del professionista, definita dal parziale difetto di tutte le qualità – eccellenza tecnica, sensibilità estetica – che sono proprie del professionista e lo costituiscono come riferimento. Secondo l’altra, al contrario, la competenza del professionista costituisce una sorta di versione-limite della competenza normale dell’amatore. Queste due accezioni contrapposte non solo riconducono a una inversione dei valori e dei rapporti in cui le due figure sono coinvolte, ma regolano due concezioni della pratica e dell’insegnamento musicale, costituendo di conseguenza un nodo conflittuale la cui via d’uscita è oggi, come si vedrà, preclusa.

L’analisi delle figure del musicista amatore e del professionista non può fare a meno di una digressione storica, che permetta di mettere a fuoco le condizioni sociali e le modalità storiche che hanno presieduto alla separazione delle categorie, in precedenza largamente indistinte, del compositore e dell’interprete, dell’interprete amatore e dell’interprete professionista, dell’interprete e dell’insegnante. L’esame successivo della figura del musicista amatore e dell’interprete professionista mostrerà la posizione paradossale del primo e la relativa autonomia del secondo.



Della divisione del lavoro musicale: il virtuoso, il professore e l’amatore


La storia sociale non procede per rotture chiare; tuttavia si può dire che il secolo XIX fu il teatro della progressiva separazione delle figure che condividono la produzione musicale in Occidente: in effetti durante i periodi classico e romantico la divisione del lavoro musicale crescerà fino a contrapporre progressivamente l’interprete e il compositore; il musicista, sempre più virtuoso e specializzato, va progressivamente generando il musicista professionale moderno mentre si fa strada una categoria nuova, quella degli amatori, che allargandosi permetterà la costituzione dell’altro professionista della musica: il professore.


Il divorzio fra interprete e compositore


Menger (1983) descrive la dialettica delle domanda e dell’offerta che ha generato, nel XIX secolo, la crescente distinzione fra compositore e interprete. La prima metà del XIX secolo era caratterizzata dalla coincidenza d’interessi fra compositori e interpreti, il mercato dell’interpretazione e quello della creazione non facevano ostacolo ma al contrario erano strettamente interdipendenti, si può dire fusi fra loro. L’espansione di questi mercati obbediva a tre princìpi, correlati fra loro, che contribuivano a rafforzare la solidarietà fra compositore e interprete: la produzione lirica prevaleva su quella strumentale, le innovazioni estetiche nei generi musicali erano di modesta entità, e il consumo di musica si rivolgeva essenzialmente a un repertorio immediatamente contemporaneo.

Dopo il 1850 l’inversione di questi tre principi porta a una divergenza crescente fra il mercato della creazione e quello della diffusione. In effetti l’attività del compositore e dell’interprete, nel rapporto che creano con il passato, tenderanno via via a contrapporsi. Da una parte l’imperativo dell’originalità diventa la norma della composizione. Dall’altra, il mercato si arricchisce di opere del passato che gli interpreti sono sempre più chiamati a suonare, man mano che le imprese di spettacolo, scottate dai frequenti insuccessi di lavori contemporanei, programmano in misura crescente opere del passato.

Questa nuova configurazione che si affaccia nel mondo della musica comporta conseguenze importanti per i suoi vari attori. In primo luogo per i compositori: per due secoli sono rari i compositori che riescono a vivere di composizione, ma la natura della “professione d’appoggio” che permette loro di continuare il lavoro creativo è cambiata. Prima del 1930 i compositori sono prevalentemente interpreti. Dopo, in numero sempre maggiore diventano insegnanti.

Inoltre, il divorzio fra i mercati della creazione e dell’interpretazione ha portato a conferire all’interpretazione un valore in sé e non più un valore aggiunto. L’eccellenza degli interpreti ha richiesto una loro sempre maggiore specializzazione che, a livello istituzionale, si è tradotta in professionalizzazione. Per questa ragione, la modifica dei rapporti fra compositore e interprete va di pari passo con la distinzione, all’interno del mondo degli interpreti, fra professionista e amatore. Questa segmentazione degli interpreti può essere analizzata seguendo innanzitutto, come un sintomo, il cambiamento dei rapporti fra compositori e amatori.


L’amatore e il compositore: indizi di un allontanamento.


La professionalizzazione di una parte degli interpreti ha creato una impermeabilità quasi assoluta fra il mondo degli amatori e quello dei compositori – ma questa separazione è stata graduale, e il XIX secolo può egualmente essere visto come la cronaca del lento allontanamento fra creatore e amatore. Rimane vero tuttavia che i rapporti fra il compositore e l’amatore colto sono assai presto stati letti sotto un’angolazione peggiorativa, sia dagli attori del mondo della musica che dai suoi osservatori: la musica creata espressamente per gli amatori doveva essere necessariamente una versione degradata - meno virtuosistica sul piano tecnico, meno ricca sul piano estetico – della musica scritta per i migliori interpreti.

E’ questa la griglia di lettura usata da Adorno (1973) per l’inizio del periodo classico che costituisce, a suo giudizio, l’inizio dell’arte borghese. Per Adorno la fine del Barocco pone i compositori in una posizione nuova: non hanno più di fronte un mecenate illuminato, ma una domanda anonima, quella del mercato, di devono indovinare i desideri, in particolare quella espressa dai primi “amatori”. Questa nuova posizione si traduce, secondo Adorno, nello sviluppo di una musica più facile e più immediata.

Noiray (1990) mette in discussione questa lettura e ne riduce la portata. Sottolinea intanto che i compositori del periodo classico e romantico continuano a proporre della musica altrettanto difficile di quella dei loro predecessori, anche se egli richiama l’emergere, nello stesso periodo, di una letteratura didattica di cui le raccolte “à l’usage des dames” di musica per tastiera sono esempio paradigmatico. Inoltre Adorno sembra commettere un anacronismo: fra il 1740 e il 1770, di fatto, i compositori sono ancora legati a un mecenate. La trasformazione del linguaggio musicale ha sì delle radici sociali, ma sono quelle che provengono dalla trasformazione della natura dei rapporti che legano l’aristocratico e il musicista: Carl Dalhaus (1985) vede lo sviluppo della musica da camera come il passaggio dall’ostentazione del mecenate all’entusiasmo di una pratica artistica comune a tutti gli strati della società. Ora definita piuttosto dagli echi sensibili che suscita negli ascoltatori, la musica è considerata trascendere le differenze di classe sociale e diventa il luogo privilegiato dell’incontro fra aristocratici e cittadini comuni, “amatori” e “professori”.

Se la rottura fra amatore e compositore non si consuma nell’epoca classica, essa si compie tuttavia nel corso del XIX secolo. Se ne trova una illustrazione esemplare nel caso delle corali francesi studiato da Gumplowicz (1987), che mostra come, ancora verso la metà del XIX secolo, le corali riuscivano ad attrarre i migliori compositori dell’epoca: Auber, Meyerbeer e Gounod sostenevano il progetto delle corali e componevano ampie opere per coro maschile per questa impresa esclusivamente amatoriale. Ma egli descrive anche come le corali cominciano poco a poco a soffrire di una immagine peggiorativa, e come i compositori più noti poco a poco si distolgono da queste formazioni, lasciando il posto a “creatori” sempre più mediocri.

Il divorzio fra compositori e amatori che ha luogo nel corso del XIX secolo è una delle manifestazioni della posizione inferiore che sarà ormai riservata alla pratica amatoriale nel nuovo ordine musicale: gli amatori non rappresentano più un’alternativa ai professionisti, ma ne costituiscono una versione degradata. La figura dell’amatore come emerge nel corso del secolo è inseparabile da quella che ad essa si contrappone: quella del musicista di professione.



La professionalizzazione del musicista: l’interprete e il professore


Ehrlich (1985) analizza il processo di professionalizzazione del mondo che investì il mondo della musica nel corso del XIX secolo, facendo il caso della Gran Bretagna. All’inizio del secolo gli impieghi dei musicisti sono concentrati prevalentemente a Londra, e la quota di stranieri negli impieghi musicali rilevanti è ancora importante. La nascente professione è molto poco femminilizzata, e la trasmissione degli impieghi e delle competenze è soprattutto familiare.

E’ l’insieme di queste caratteristiche che viene modificato con la costituzione di un gruppo di musicisti di professione: il numero dei musicisti continua a crescere, sostenuto da una domanda musicale che resterà importante fino alla prima guerra mondiale. Questa crescita è alimentata dallo sviluppo delle istituzioni formative, che gradualmente sostituiscono il ruolo della famiglia nella trasmissione delle competenze. A questa trasformazione quantitativa viene ad aggiungersene una qualitativa: nel corso del secolo il ventaglio delle situazioni intermedie fra l’amatore e il professionista si riduce man mano, il mondo professionale diventa sempre meno permeabile agli amatori e a quelle figure “intermittenti” che, in un primo tempo, avevano potuto continuare a mescolarsi ai membri effettivi nelle formazioni professionistiche.

Nell’insieme, il mercato dei musicisti rimane dominato da Londra: nel XIX come nel XX secolo la capitale britannica non cesserà di concentrare la maggior parte dei musicisti di professione. Ma con la crescita urbana la domanda di musicisti professionisti si sviluppa anche in provincia, contribuendo a diffondere su tutto il territorio britannico il modello londinese di professionalizzazione (formazione, mercato del lavoro, gestione delle carriere). Il reclutamento e le carriere progressivamente si delocalizzano, e man mano che si costituiscono dei bacini d’impiego locali cresce anche la concorrenza fra i musicisti locali.

Il mondo musicale è segnato dalla predominanza dei musicisti specializzati nella musica leggera: il consumo di musica fine a se stessa è relativamente poco importante, la maggior parte del lavoro degli strumentisti è fornita dai cabaret, dai caffè, dai music-hall, e dopo il 1918 dai cinema. L’inversione della congiuntura sarà brutale. Al principio degli anni ‘30 il cinema sonoro trionfa e rimpiazza per sempre il muto, che alimentava massicciamente la domanda di musicisti professionisti. Parallelamente lo sviluppo dei media – radio e dischi – contribuisce a ridurre sensibilmente la domanda di musicisti professionali. Queste due trasformazioni accentueranno la stratificazione dell’ambiente musicale con la formazione di una élite: formazione favorita e sollecitata dall’impetuoso sviluppo dell’industria fonografica e dalla radio.

A fianco dell’interprete emerge l’altra figura del professionista: quella dell’insegnante. Questo è il settore che si femminizza più rapidamente, e questa femminilizzazione è uno degli indicatori del posto occupato dall’insegnamento nella gerarchia del prestigio professionale: l’esercizio dell’insegnamento era un mestiere a bassa qualificazione (non esisteva d’altronde una filiera unica di certificazione delle competenze), mediocremente remunerato, praticato essenzialmente in un contesto privato e prevalentemente dedicato ai gradi elementari dell’istruzione musicale.

In questo processo di professionalizzazione, l’amatore rimane nell’ombra: estremamente eterogeneo – dalla musica fatta nei salotti alle corali di provincia – il mondo amatoriale non ha di comune altro che di essere rigettato al di fuori dal triangolo disegnato dalla nuova divisione del lavoro musicale, definita nell’articolazione dei tre poli corrispondenti all’interprete professionale, al compositore e al professore. L’interprete professionale moderno nasce dalla distanza sempre maggiore che lo separa dall’amatore. L’emersione dell’interprete professionale si accompagna al progressivo allontanamento fra amatore e compositore: perciò vicino al professore l’amatore trova più facilmente il suo spazio, formando la figura di un amatore-allievo che istallerà rapidamente il musicista amatore nella posizione di un professionista degradato.



La posizione dell’amatore: sotto il controllo del professionista?


Nel tentativo di identificare la posizione del musicista amatore, bisogna innanzitutto ricordare che la pertinenza delle domande e l’interpretazione dei risultati saranno sensibilmente diversi a seconda che si faccia l’ipotesi che musicisti amatori e professionisti partecipino di un mondo comune, o che invece si supponga che la pratica amatoriale della musica abbia a che vedere principalmente con le altre pratiche culturali amatoriali. La posizione dei musicisti amatori da questo punto di vista è abbastanza ambigua. Da un lato, in effetti la pratica amatoriale della musica tende a condividere dei tratti comuni con le altre pratiche artistiche amatoriali, ma presenta tuttavia delle specificità troppo marcate per essere semplicemente ricondotta a quelle. Da un altro lato, il mondo musicale amatoriale rimane relativamente impermeabile al mondo della musica professionale, ma tende a lasciarsi imporre, soprattutto dall’angolazione dell’insegnamento, un progetto di tipo professionale che gli è a priori estraneo. Presa in questo doppio sistema di tensioni – in rapporto alle altre pratiche amatoriali, e in rapporto ai professionisti della musica – la pratica musicale amatoriale definisce così la sua specificità, che è anche una difficoltà d’essere. Lo si dimostrerà a partire dal caso francese.



La musica amatoriale e le altre pratiche culturali


I lavori di sociografia di cui si dispone per la Francia, e che disegnano il ritratto tipico dell’amatore (Hennion, 1983; Donnat, 1996) mostrano che il musicista amatore non si distingue sostanzialmente dagli altri amatori che si dedicano al teatro, alla scrittura, alla danza o alle arti plastiche. Il musicista amatore è in effetti prevalentemente di genere femminile, è il più delle volte espressione di un contesto sociale favorevole – e da questo punto di vista il livello culturale conta più di quello economico – e la sua attività pratica dipende abbastanza dalla sua situazione personale – se è single o meno, se la sua situazione scolastica o professionale gli lascia il tempo di dedicarsi a attività del tempo libero. Grossolanamente abbozzata, la figura del musicista amatore non si discosta da quella dell’attore amatore o del pittore della domenica.

La musica però è portatrice di specificità che tendono a singolarizzare il musicista in rapporto agli altri amatori. La prima serie di particolarità ha a che vedere con la particolare iscrizione della pratica musicale nel ciclo della vita, e con gli effetti generazionali. Questi ultimi nel caso dei musicisti sono in effetti meno marcati che non per gli altri amatori: tutte le pratiche amatoriali hanno conosciuto un crescita molto importante a partire dagli anni ‘60, mentre la pratica amatoriale musicale era impiantata da ben prima nella vita sociale.

Peraltro l’iscrizione della pratica musicale nel ciclo della vita è segnata da un paradosso che distingue doppiamente la pratica musicale dalle altre pratiche artistiche amatoriali. Da un canto, di tutte le attività artistiche la musica è quella più collegata all’infanzia: la pressione familiare gioca un ruolo determinante nella decisione di suonare uno strumento, e l’eredità familiare è molto forte – un individuo ha più possibilità di essere un musicista amatore quando proviene da una famiglia dove la musica era praticata. Il collegamento con l’infanzia ha anche direttamente a che vedere con il peso dell’insegnamento nella pratica musicale amatoriale, e si ritrova nell’alto tasso di abbandono precoce di un’attività che non necessariamente era stata scelta dal bambino. Da un altro canto, ciononostante fra tutte le attività artistiche la musica è più spesso quella che dura tutta la vita: se non l’hanno abbandonata nei primi anni di apprendistato, i musicisti amatori continuano a praticare la musica per tutta la vita. Questa iscrizione paradossale nel ciclo della vita tende a conferire alla pratica musicale una posizione singolare fra le pratiche amatoriali. 

Un’altra particolarità della pratica musicale la distingue fortemente dalle altre pratiche amatoriali, e insieme contribuisce a rendere profondamente eterogeneo il mondo dei musicisti amatori al proprio interno. Più di altre – per esempio gli attori o i danzatori – quella dei musicisti è frequentemente una pratica solitaria. Certo, questa particolarità è distribuita diversamente a seconda degli strumenti: è molto più il caso del pianoforte, che in Francia costituisce la metà dei musicisti amatori, che non degli archi o del canto. Ma il carattere solitario della pratica musicale ha almeno una conseguenza importante: i musicisti amatori facilmente fanno a meno del contatto con un pubblico. Da questo punto di vista la pratica musicale amatoriale è in opposizione totale con quella professionale, che non esiste se non ha condizione di confrontarsi, direttamente o indirettamente, con un pubblico – è questo uno degli aspetti che distinguono fortemente i musicisti amatori dai professionisti.

La pratica musica tuttavia non è mai totalmente “desocializzata”: semplicemente le modalità della sua socializzazione non avvengono tanto nel confronto col pubblico quanto nell’insegnamento/apprendimento e, più in generale, nell’inserimento in un progetto che le viene imposto dalle strutture preposte all’insegnamento.


Il ruolo dell’insegnamento e l’imposizione del progetto professionale


Uno degli aspetti che più fortemente distingue la musica dalle altre pratiche amatoriali è il ruolo che vi svolge l’insegnamento specializzato: legato alla precocità degli inizi, questo ruolo tende a ridurre in larga misura la pratica del musicista amatore a una logica di apprendimento. Ora, questo apprendimento in Francia s’iscrive in un progetto che, come mostrato da Hennion (1983) è immediatamente orientato verso l’eccellenza e la professionalizzazione. A domande di musica estremamente eterogenee, il conservatorio come si è configurato in Francia risponde con una offerta unica: musica cosiddetta “classica”, virtuosismo tecnico, comprensione intellettuale della musica e, per certi strumenti – archi e fiati segnatamente – pratica collettiva della musica sono i pilastri di questa formazione che inserisce la pratica amatoriale in una prospettiva professionale.

Se l’atteggiamento degli allievi dei conservatori presi in questa dinamica è molto differenziato, l’imposizione di questo progetto professionalizzante risulta sorprendente quando si considera che il mondo professionale resta estraneo alla grande maggioranza degli amatori. In primo luogo la maggior parte degli amatori non conosce il mondo professionale della musica e non desidera entrare a farne parte. Inoltre i musicisti amatori danno prova di un notevole conformismo nei loro gusti musicali e di una certa apatia nelle loro pratiche culturali – andare all’Opera o al concerto: le scelte degli allievi di Conservatorio (Hennion, 1988) o più in generale degli amatori (Donnat, 1996) sono fra le più classiche, e restano in particolare totalmente estranee al monde della creazione contemporanea. In altri termini, il legame obiettivo che esiste fra la pratica musicale amatoriale e l’interesse per il mondo professionale è molto tenue.  

Se impongono un unico progetto didattico per rispondere a domande diverse, si può parlare di fallimento dei Conservatori? Anche qui la risposta è ambigua. In primo luogo, è necessario prendere atto che i Conservatori non riescono a democratizzare la musica. Senza dubbio il reclutamento dei Conservatori è più egualitario di quello delle sale da concerto – la pratica musicale, più del consumo musicale, funziona come strumento di democratizzazione. Ma l’influenza del Conservatorio resta debole, in particolare a fronte dell’eredità familiare – come sottolineato da Hennion (1983), i Conservatori sembrano incapaci di correggere le ineguaglianze sociali e musicali di partenza: “invece di livellarle, l’insegnamento musicale le accentua, come se non potesse dare frutti che a condizione di completare un contesto familiare favorevole che esso non è in grado di rimpiazzare” (Hennion 1983, p.15).

Infine, dal momento che lo “spirito conservatoriale” è interamente sotteso da un progetto professionale, il Conservatorio e più in generale l’insegnamento dovrebbero avere un ruolo fondamentale nell’articolazione del mondo amatoriale e del mercato del lavoro dei musicisti di professione. Da questo punto di vista, il bilancio che si può trarre dal sistema dei Conservatori è profondamente ambivalente. Da un lato, in effetti la frequenza dei sistemi d’insegnamento può permettere agli allievi musicisti di misurare la loro possibilità di successo nel mondo professionale. Strauss (1970) mostra così che la frequentazione delle scuole d’arte permette agli artisti di accumulare informazioni sulle loro possibilità di successo, e sulle condizioni di riuscita sul mercato del lavoro. Allo stesso modo, il peso dei sistemi d’insegnamento in materia musicale può generare una permeabilità capillare molto utile fra mondo degli amatori e mondo dei professionisti.

Tuttavia, il ruolo svolto dall’insegnamento nel campo della musica può essere anche portatore di squilibri demografici che esso contribuisce a mantenere. Ehrlich (1985) dimostra così che quando la domanda di spettacoli e di servizi didattici cresce, l’aggiustamento verso l’alto si compie senza difficoltà. Viceversa, nei periodi in cui la domanda di musicisti si affievolisce, l’aggiustamento verso il basso dell’offerta di musicisti è molto più rischioso. Di fatto, coloro che vengono respinti dal mercato degli esecutori si rivolgono ai mestieri dell’insegnamento. La sovraproduzione di aspiranti musicisti ne viene ancora rafforzata: più insegnanti formano più allievi, dei quali le chance di accesso al mercato professionale sono però sempre più deboli, e s’indeboliscono ancora nella misura in cui il numero degli aspiranti aumenta. Certi strumenti, come il pianoforte o il flauto a becco, costituiscono esempi paradigmatici di questo tipo di distorsione.


L’amatore pratico: l’altra figura dell’amatore


Malgrado lo spazio occupato dall’insegnamento e dal “progetto professionale” che da esso viene proposto, la pratica musicale amatoriale ha potuto, e può ancora pensarsi al di fuori dal questo quadro. Collocarsi fuori dall’insegnamento, liberarsi dall’imperativo di eccellenza e di virtuosismo e invece concentrarsi su una pratica più immediata, meno intellettuale e meno virtuosistica, rivalorizzare la pratica come fine a se stessa: questi potrebbero essere i tratti per definire un “contro-modello” da opporre – o da giustapporre – a quello dei Conservatori. In particolare, questo contro-modello del musicista amatore evita di concepire l’amatore come una somma di privazioni delle qualità che costituiscono l’interprete professionale; obbliga a considerarlo come attore a sé stante e non più soggetto in divenire, nel mondo della musica; un attore la cui pratica, qualitativamente differente, non può essere ricondotta a quella del professionista.

La nascita di questa figura di amatore come attore a sé stante del mondo musicale risale circa alla stessa epoca dell’amatore come professionista in divenire definita dal Conservatorio: se ne trova una definizione estremamente chiara nel progetto che anima i fondatori del movimento delle corali popolari [orphéons], studiate da Gumplowicz (1987). Discepolo di compositore della rivoluzione francese, come Méhul o Gossec, Wilhelm – uno dei fondatori del movimento – condivide con loro l’idea che il vero artista è colui che riesce a far cantare il popolo. Il progetto degli orphéons è insieme pedagogico e pratico: l’obiettivo che si persegue non è quello di formare dei virtuosi, ma di far discendere la pratica musicale in tutti gli strati della società, e in tutti i villaggi di Francia. La pratica musicale a potuto così concepirsi come fine a se stessa, il che certamente non ne esclude l’apprendimento, ma non la offre come via d’accesso al mondo della professione.

In breve tempo, questo progetto fu svalutato e ridicolizzato, il che prova che dei due modelli di amatore che si definirono in quella stessa epoca l’uno prevalse sull’altro. La pratica amatoriale di cui era manifestazione non è finora scomparsa, seppur rimane minoritaria. A questo dualismo delle pratiche amatoriali rimandano i tratti particolari della pratica del canto corale in Francia: radicato da lungo tempo nella vita sociale, praticato da cantori spesso più anziani degli strumentisti amatori, il canto corale rimane una strada d’accesso privilegiata alla pratica musicale, e contribuisce a definire un universo amatoriale abbastanza diverso da quello degli strumentisti. Allo stesso modo, certi strumenti sono massicciamente praticati da musicisti che non si adattano alla figura di amatore definita dai Conservatori. Così, mentre il ruolo dell’autoapprendimento è nell’insieme abbastanza debole nell’apprendimento della musica – sopratutto nel confronto con le altre pratiche culturali – esso si ritrova invece nel caso dei chitarristi o dei percussionisti: in altri termini, nel caso degli strumenti poco valorizzati dal repertorio difeso dai Conservatori, ma centrali nella musica rock o leggera. Questi strumenti possono rinviare molto più facilmente a una pratica musicale non professionalizzante, che emancipa ancor più il mondo amatoriale da quello dei professionisti. 

Il mondo amatoriale e quello professionale non sono impermeabili reciprocamente, ma è troppo semplice postulare fin dal principio che essi partecipino di uno stesso universo per il solo fatto che entrambi mettono in gioco la pratica musicale. La natura delle loro relazioni, per lo meno per gli amatori, contribuisce in larga misura a definire quello che sono. In effetti, i musicisti amatori si trovano in una posizione paradossale: anche se ignorano largamente il mondo professionale, ad esso sono tuttavia sottoposti per il tramite del sistema d’insegnamento. Che contribuisce, imponendo loro un progetto professionale che è loro estraneo a priori, a fare dell’amatore una versione degradata del professionista. Preso in questa relazione paradossale, fatta di estraneità e di dominio, il mondo amatoriale avrà ben poca influenza su quello professionale: e così si spiega come, volendo portare ora la nostra analisi sul mondo professionale, gli amatori praticamente escono di scena.

[….]


torna a Didattica
torna alla homepage
facebook

contatti: team@aasp.it