UN ESTRATTO DA:
François, Pierre, 2004, “Qu’est-ce qu’un
musicien? Professionels et amateurs” in
Nattiez, J.-J. (dir), Musiques, Une encyclopédie pour le XXIème
siècle. Volume 2: les savoirs musicaux,
Paris/Arles, La cité de la musique/Arles, p. 585-611
Traduzione di
Sergio Lattes
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originale si trova a:
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Encyclopdie
NB: I riferimenti bibliografici citati nel
testo tradotto si trovano in calce al documento originale.
Cos’è un
musicista? Professionisti e amatori
In campo
artistico più ancora che altrove, non è agevole tracciare una linea certa fra
l’amatore e il professionista. Si ritiene in generale che il professionismo
corrisponda all’esercizio di un mestiere, fondato su una competenza di cui la
remunerazione sia sufficiente ad attestare l’esistenza. Mentre l’amatorialità
sia di conseguenza definita, in qualche misura negativamente, come “un’attività
praticata per diletto, con fini personali o per una cerchia prossimale
ristretta” (Donnat, 1996, p. 123). Queste definizioni schematiche e nette non
possono rappresentare che un punto di partenza, che l’analisi deve affinare e
precisare. Vorremmo avvicinare questa discussione provando a identificare, nei
rapporti fra l’amatore e il professionista, i nodi economici e sociali più
problematici.
Iniziamo col
sottolineare che la riconciliazione del mondo dei musicisti professionisti con
l’universo della musica amatoriale non è affatto scontata. In effetti, nella
definizione dell’identità sociale del musicista amatore e del musicista
professionista, l’analisi dovrà mettere in risalto ciò che li unisce - la
pratica musicale - oppure ciò che li separa? In altri termini, il musicista
amatore ha a che vedere in primis
con il musicista professionale, oppure con l’insieme degli amatori che si
dedicano alla pratica di altre attività culturali – il pittore, lo scrittore,
l’attore amatoriale? E’ evidentemente necessario lasciare aperta la questione di
sapere se la pratica professionale e quella amatoriale della musica partecipino
di un mondo comune.
Ma la
questione dei rapporti fra l’amatore e il professionista merita anche di essere
posta da un punto di vista più teorico. Fra le molte accezioni di questi due
termini si può, con Bourdieu (1984), individuare due posizioni contrapposte.
Secondo l’una, l’amatore costituirebbe una sorta di versione degradata del
professionista, definita dal parziale difetto di tutte le qualità – eccellenza
tecnica, sensibilità estetica – che sono proprie del professionista e lo
costituiscono come riferimento. Secondo l’altra, al contrario, la competenza del
professionista costituisce una sorta di versione-limite della competenza normale
dell’amatore. Queste due accezioni contrapposte non solo riconducono a una
inversione dei valori e dei rapporti in cui le due figure sono coinvolte, ma
regolano due concezioni della pratica e dell’insegnamento musicale, costituendo
di conseguenza un nodo conflittuale la cui via d’uscita è oggi, come si vedrà,
preclusa.
L’analisi
delle figure del musicista amatore e del professionista non può fare a meno di
una digressione storica, che permetta di mettere a fuoco le condizioni sociali e
le modalità storiche che hanno presieduto alla separazione delle categorie, in
precedenza largamente indistinte, del compositore e dell’interprete,
dell’interprete amatore e dell’interprete professionista, dell’interprete e
dell’insegnante. L’esame successivo della figura del musicista amatore e
dell’interprete professionista mostrerà la posizione paradossale del primo e la
relativa autonomia del secondo.
Della
divisione del lavoro musicale: il virtuoso, il professore e l’amatore
La storia sociale non procede per rotture
chiare; tuttavia si può dire che il secolo XIX fu il teatro della progressiva
separazione delle figure che condividono
la produzione musicale in Occidente: in
effetti durante i periodi classico e romantico la divisione del lavoro musicale
crescerà fino a contrapporre progressivamente l’interprete e il compositore; il
musicista, sempre più virtuoso e specializzato, va progressivamente generando il
musicista professionale moderno mentre si fa strada una categoria nuova, quella
degli amatori, che allargandosi permetterà la costituzione dell’altro
professionista della musica: il professore.
Il divorzio
fra interprete e compositore
Menger (1983) descrive la dialettica delle
domanda e dell’offerta che ha generato, nel XIX secolo, la crescente distinzione
fra compositore e interprete. La prima metà del XIX secolo era caratterizzata
dalla coincidenza d’interessi fra compositori e interpreti, il mercato
dell’interpretazione e quello della creazione non facevano ostacolo ma al
contrario erano strettamente interdipendenti, si può dire fusi fra loro.
L’espansione di questi mercati obbediva a tre princìpi, correlati fra loro, che
contribuivano a rafforzare la solidarietà fra compositore e interprete: la
produzione lirica prevaleva su quella strumentale, le innovazioni estetiche nei
generi musicali erano di modesta entità, e il consumo di musica si rivolgeva
essenzialmente a un repertorio immediatamente contemporaneo.
Dopo il 1850 l’inversione di questi tre
principi porta a una divergenza crescente fra il mercato della creazione e quello
della diffusione. In effetti l’attività del compositore e dell’interprete, nel
rapporto che creano con il passato, tenderanno via via a contrapporsi. Da una
parte l’imperativo dell’originalità diventa la norma della composizione.
Dall’altra, il mercato si arricchisce di opere del passato che gli interpreti
sono sempre più chiamati a suonare, man mano che le imprese di spettacolo,
scottate dai frequenti insuccessi di lavori contemporanei, programmano in misura
crescente opere del passato.
Questa nuova configurazione che si affaccia
nel mondo della musica comporta conseguenze importanti per i suoi vari attori.
In primo luogo per i compositori: per due secoli sono rari i compositori che
riescono a vivere di composizione, ma la natura della “professione d’appoggio”
che permette loro di continuare il lavoro creativo è cambiata. Prima del 1930 i
compositori sono prevalentemente interpreti. Dopo, in numero sempre maggiore
diventano insegnanti.
Inoltre, il divorzio fra i mercati della
creazione e dell’interpretazione ha portato a conferire all’interpretazione un
valore in sé e non più un valore aggiunto. L’eccellenza degli interpreti ha
richiesto una loro sempre maggiore specializzazione che, a livello
istituzionale, si è tradotta in professionalizzazione. Per questa ragione, la
modifica dei rapporti fra compositore e interprete va di pari passo con la
distinzione, all’interno del mondo degli interpreti, fra professionista e
amatore. Questa segmentazione degli interpreti può essere analizzata seguendo
innanzitutto, come un sintomo, il cambiamento dei rapporti fra compositori e
amatori.
L’amatore e
il compositore: indizi di un allontanamento.
La professionalizzazione di una parte degli
interpreti ha creato una impermeabilità quasi assoluta fra il mondo degli
amatori e quello dei compositori – ma questa separazione è stata graduale, e il
XIX secolo può egualmente essere visto come la cronaca del lento allontanamento
fra creatore e amatore. Rimane vero tuttavia che i rapporti fra il compositore e
l’amatore colto sono assai presto stati letti sotto un’angolazione peggiorativa,
sia dagli attori del mondo della musica che dai suoi osservatori: la musica
creata espressamente per gli amatori doveva essere necessariamente una versione
degradata - meno virtuosistica sul piano tecnico, meno ricca sul piano estetico
– della musica scritta per i migliori interpreti.
E’ questa la griglia di lettura usata da
Adorno (1973) per l’inizio del periodo classico che costituisce, a suo giudizio,
l’inizio dell’arte borghese. Per Adorno la fine del Barocco pone i compositori
in una posizione nuova: non hanno più di fronte un mecenate illuminato, ma una
domanda anonima, quella del mercato, di devono indovinare i desideri, in
particolare quella espressa dai primi “amatori”. Questa nuova posizione si
traduce, secondo Adorno, nello sviluppo di una musica più facile e più
immediata.
Noiray (1990) mette in discussione questa
lettura e ne riduce la portata. Sottolinea intanto che i compositori del periodo
classico e romantico continuano a proporre della musica altrettanto difficile di
quella dei loro predecessori, anche se egli richiama l’emergere, nello stesso
periodo, di una letteratura didattica di cui le raccolte “à l’usage des dames”
di musica per tastiera sono esempio paradigmatico. Inoltre Adorno sembra
commettere un anacronismo: fra il 1740 e il 1770, di fatto, i compositori sono
ancora legati a un mecenate. La trasformazione del linguaggio musicale ha sì
delle radici sociali, ma sono quelle che provengono dalla trasformazione della
natura dei rapporti che legano l’aristocratico e il musicista: Carl Dalhaus
(1985) vede lo sviluppo della musica da camera come il passaggio
dall’ostentazione del mecenate all’entusiasmo di una pratica artistica comune a
tutti gli strati della società. Ora definita piuttosto dagli echi sensibili che
suscita negli ascoltatori, la musica è considerata trascendere le differenze di
classe sociale e diventa il luogo privilegiato dell’incontro fra aristocratici e
cittadini comuni, “amatori” e “professori”.
Se la rottura fra amatore e compositore non si
consuma nell’epoca classica, essa si compie tuttavia nel corso del XIX secolo.
Se ne trova una illustrazione esemplare nel caso delle corali francesi studiato
da Gumplowicz (1987), che mostra come, ancora verso la metà del XIX secolo, le
corali riuscivano ad attrarre i migliori compositori dell’epoca: Auber,
Meyerbeer e Gounod sostenevano il progetto delle corali e componevano ampie
opere per coro maschile per questa impresa esclusivamente amatoriale. Ma egli
descrive anche come le corali cominciano poco a poco a soffrire di una immagine
peggiorativa, e come i compositori più noti poco a poco si distolgono da queste
formazioni, lasciando il posto a “creatori” sempre più mediocri.
Il divorzio fra compositori e amatori che ha
luogo nel corso del XIX secolo è una delle manifestazioni della posizione
inferiore che sarà ormai riservata alla pratica amatoriale nel nuovo ordine
musicale: gli amatori non rappresentano più un’alternativa ai professionisti, ma
ne costituiscono una versione degradata. La figura dell’amatore come emerge nel
corso del secolo è inseparabile da quella che ad essa si contrappone: quella del
musicista di professione.
La
professionalizzazione del musicista: l’interprete e il professore
Ehrlich (1985) analizza il processo di
professionalizzazione del mondo che investì il mondo della musica nel corso del
XIX secolo, facendo il caso della Gran Bretagna. All’inizio del secolo gli
impieghi dei musicisti sono concentrati prevalentemente a Londra, e la quota di
stranieri negli impieghi musicali rilevanti è ancora importante. La nascente
professione è molto poco femminilizzata, e la trasmissione degli impieghi e
delle competenze è soprattutto familiare.
E’ l’insieme di queste caratteristiche che
viene modificato con la costituzione di un gruppo di musicisti di professione:
il numero dei musicisti continua a crescere, sostenuto da una domanda musicale
che resterà importante fino alla prima guerra mondiale. Questa crescita è
alimentata dallo sviluppo delle istituzioni formative, che gradualmente
sostituiscono il ruolo della famiglia nella trasmissione delle competenze. A
questa trasformazione quantitativa viene ad aggiungersene una qualitativa: nel
corso del secolo il ventaglio delle situazioni intermedie fra l’amatore e il
professionista si riduce man mano, il mondo professionale diventa sempre meno
permeabile agli amatori e a quelle figure “intermittenti” che, in un primo
tempo, avevano potuto continuare a mescolarsi ai membri effettivi nelle
formazioni professionistiche.
Nell’insieme, il mercato dei musicisti rimane
dominato da Londra: nel XIX come nel XX secolo la capitale britannica non
cesserà di concentrare la maggior parte dei musicisti di professione. Ma con la
crescita urbana la domanda di musicisti professionisti si sviluppa anche in
provincia, contribuendo a diffondere su tutto il territorio britannico il
modello londinese di professionalizzazione (formazione, mercato del lavoro,
gestione delle carriere). Il reclutamento e le carriere progressivamente si
delocalizzano, e man mano che si costituiscono dei bacini d’impiego locali
cresce anche la concorrenza fra i musicisti locali.
Il mondo musicale è segnato dalla predominanza
dei musicisti specializzati nella musica leggera: il consumo di musica fine a
se stessa è relativamente poco importante, la maggior parte del lavoro degli
strumentisti è fornita dai cabaret, dai caffè, dai music-hall, e dopo il 1918
dai cinema. L’inversione della congiuntura sarà brutale. Al principio degli anni
‘30 il cinema sonoro trionfa e rimpiazza per sempre il muto, che alimentava
massicciamente la domanda di musicisti professionisti. Parallelamente lo
sviluppo dei media – radio e dischi – contribuisce a ridurre sensibilmente la
domanda di musicisti professionali. Queste due trasformazioni accentueranno la
stratificazione dell’ambiente musicale con la formazione di una élite:
formazione favorita e sollecitata dall’impetuoso sviluppo dell’industria
fonografica e dalla radio.
A fianco dell’interprete emerge l’altra figura
del professionista: quella dell’insegnante. Questo è il settore che si
femminizza più rapidamente, e questa femminilizzazione è uno degli indicatori
del posto occupato dall’insegnamento nella gerarchia del prestigio
professionale: l’esercizio dell’insegnamento era un mestiere a bassa
qualificazione (non esisteva d’altronde una filiera unica di certificazione
delle competenze), mediocremente remunerato, praticato essenzialmente in un
contesto privato e prevalentemente dedicato ai gradi elementari dell’istruzione
musicale.
In questo processo di professionalizzazione,
l’amatore rimane nell’ombra: estremamente eterogeneo – dalla musica fatta nei
salotti alle corali di provincia – il mondo amatoriale non ha di comune altro
che di essere rigettato al di fuori dal triangolo disegnato dalla nuova
divisione del lavoro musicale, definita nell’articolazione dei tre poli
corrispondenti all’interprete professionale, al compositore e al professore.
L’interprete professionale moderno nasce dalla distanza sempre maggiore che lo
separa dall’amatore. L’emersione dell’interprete professionale si accompagna al
progressivo allontanamento fra amatore e compositore: perciò vicino al
professore l’amatore trova più facilmente il suo spazio, formando la figura
di un amatore-allievo che istallerà rapidamente il musicista amatore nella
posizione di un professionista degradato.
La posizione
dell’amatore: sotto il controllo del professionista?
Nel tentativo di identificare la posizione del
musicista amatore, bisogna innanzitutto ricordare che la pertinenza delle
domande e l’interpretazione dei risultati saranno sensibilmente diversi a
seconda che si faccia l’ipotesi che musicisti amatori e professionisti
partecipino di un mondo comune, o che invece si supponga che la pratica
amatoriale della musica abbia a che vedere principalmente con le altre pratiche
culturali amatoriali. La posizione dei musicisti amatori da questo punto di
vista è abbastanza ambigua. Da un lato, in effetti la pratica amatoriale della
musica tende a condividere dei tratti comuni con le altre pratiche artistiche
amatoriali, ma presenta tuttavia delle specificità troppo marcate per essere
semplicemente ricondotta a quelle. Da un altro lato, il mondo musicale
amatoriale rimane relativamente impermeabile al mondo della musica
professionale, ma tende a lasciarsi imporre, soprattutto dall’angolazione
dell’insegnamento, un progetto di tipo professionale che gli è
a priori
estraneo.
Presa in questo doppio sistema di tensioni – in rapporto alle altre pratiche
amatoriali, e in rapporto ai professionisti della musica – la pratica musicale
amatoriale definisce così la sua specificità, che è anche una difficoltà
d’essere. Lo si dimostrerà a partire dal caso francese.
La musica
amatoriale e le altre pratiche culturali
I lavori di sociografia di cui si dispone per
la Francia, e che disegnano il ritratto tipico dell’amatore (Hennion, 1983;
Donnat, 1996) mostrano che il musicista amatore non si distingue sostanzialmente
dagli altri amatori che si dedicano al teatro, alla scrittura, alla danza o alle
arti plastiche. Il musicista amatore è in effetti prevalentemente di genere
femminile, è il più delle volte espressione di un contesto sociale favorevole –
e da questo punto di vista il livello culturale conta più di quello economico –
e la sua attività pratica dipende abbastanza dalla sua situazione personale – se
è single o meno, se la sua situazione scolastica o professionale gli lascia il
tempo di dedicarsi a attività del tempo libero. Grossolanamente abbozzata, la
figura del musicista amatore non si discosta da quella dell’attore amatore o del
pittore della domenica.
La musica però è portatrice di specificità che
tendono a singolarizzare il musicista in rapporto agli altri amatori. La prima
serie di particolarità ha a che vedere con la particolare iscrizione della
pratica musicale nel ciclo della vita, e con gli effetti generazionali. Questi
ultimi nel caso dei musicisti sono in effetti meno marcati che non per gli altri
amatori: tutte le pratiche amatoriali hanno conosciuto un crescita molto
importante a partire dagli anni ‘60, mentre la pratica amatoriale musicale era
impiantata da ben prima nella vita sociale.
Peraltro l’iscrizione della pratica musicale
nel ciclo della vita è segnata da un paradosso che distingue doppiamente la
pratica musicale dalle altre pratiche artistiche amatoriali. Da un canto, di
tutte le attività artistiche la musica è quella più collegata all’infanzia: la
pressione familiare gioca un ruolo determinante nella decisione di suonare uno
strumento, e l’eredità familiare è molto forte – un individuo ha più possibilità
di essere un musicista amatore quando proviene da una famiglia dove la musica
era praticata. Il collegamento con l’infanzia ha anche direttamente a che vedere
con il peso dell’insegnamento nella pratica musicale amatoriale, e si ritrova
nell’alto tasso di abbandono precoce di un’attività che non necessariamente era
stata scelta dal bambino. Da un altro canto, ciononostante fra tutte le attività
artistiche la musica è più spesso quella che dura tutta la vita: se non l’hanno
abbandonata nei primi anni di apprendistato, i musicisti amatori continuano a
praticare la musica per tutta la vita. Questa iscrizione paradossale nel ciclo
della vita tende a conferire alla pratica musicale una posizione singolare fra
le pratiche amatoriali.
Un’altra particolarità della pratica musicale
la distingue fortemente dalle altre pratiche amatoriali, e insieme contribuisce
a rendere profondamente eterogeneo il mondo dei musicisti amatori al proprio
interno. Più di altre – per esempio gli attori o i danzatori – quella dei
musicisti è frequentemente una pratica solitaria. Certo, questa particolarità è
distribuita diversamente a seconda degli strumenti: è molto più il caso del
pianoforte, che in Francia costituisce la metà dei musicisti amatori, che non
degli archi o del canto. Ma il carattere solitario della pratica musicale ha
almeno una conseguenza importante: i musicisti amatori facilmente fanno a meno
del contatto con un pubblico. Da questo punto di vista la pratica musicale
amatoriale è in opposizione totale con quella professionale, che non esiste se
non ha condizione di confrontarsi, direttamente o indirettamente, con un
pubblico – è questo uno degli aspetti che distinguono fortemente i musicisti
amatori dai professionisti.
La pratica musica tuttavia non è mai
totalmente “desocializzata”: semplicemente le modalità della sua socializzazione
non avvengono tanto nel confronto col pubblico quanto
nell’insegnamento/apprendimento e, più in generale, nell’inserimento in un
progetto che le viene imposto dalle strutture preposte all’insegnamento.
Il ruolo
dell’insegnamento e l’imposizione del progetto professionale
Uno degli aspetti che più fortemente distingue
la musica dalle altre pratiche amatoriali è il ruolo che vi svolge
l’insegnamento specializzato: legato alla precocità degli inizi, questo ruolo
tende a ridurre in larga misura la pratica del musicista amatore a una logica di
apprendimento. Ora, questo apprendimento in Francia s’iscrive in un progetto che,
come mostrato da Hennion (1983) è immediatamente orientato verso l’eccellenza e
la professionalizzazione. A domande di musica estremamente eterogenee, il
conservatorio come si è configurato in Francia risponde con una offerta unica:
musica cosiddetta “classica”, virtuosismo tecnico, comprensione intellettuale
della musica e, per certi strumenti – archi e fiati segnatamente – pratica
collettiva della musica sono i pilastri di questa formazione che inserisce la
pratica amatoriale in una prospettiva professionale.
Se l’atteggiamento degli allievi dei
conservatori presi in questa dinamica è molto differenziato, l’imposizione di
questo progetto professionalizzante risulta sorprendente quando si considera che
il mondo professionale resta estraneo alla grande maggioranza degli amatori. In
primo luogo la maggior parte degli amatori non conosce il mondo professionale
della musica e non desidera entrare a farne parte. Inoltre i musicisti amatori
danno prova di un notevole conformismo nei loro gusti musicali e di una certa
apatia nelle loro pratiche culturali – andare all’Opera o al concerto: le scelte
degli allievi di Conservatorio (Hennion, 1988) o più in generale degli amatori (Donnat,
1996) sono fra le più classiche, e restano in particolare totalmente estranee al
monde della creazione contemporanea. In altri termini, il legame obiettivo che
esiste fra la pratica musicale amatoriale e l’interesse per il mondo
professionale è molto tenue.
Se impongono un unico progetto didattico per
rispondere a domande diverse, si può parlare di fallimento dei Conservatori?
Anche qui la risposta è ambigua. In primo luogo, è necessario prendere atto che
i Conservatori non riescono a democratizzare la musica. Senza dubbio il
reclutamento dei Conservatori è più egualitario di quello delle sale da concerto
– la pratica musicale, più del consumo musicale, funziona come strumento di
democratizzazione. Ma l’influenza del Conservatorio resta debole, in particolare
a fronte dell’eredità familiare – come sottolineato da Hennion (1983), i
Conservatori sembrano incapaci di correggere le ineguaglianze sociali e musicali
di partenza: “invece di livellarle, l’insegnamento musicale le accentua, come se
non potesse dare frutti che a condizione di
completare
un contesto familiare favorevole che esso non è in grado di
rimpiazzare”
(Hennion
1983, p.15).
Infine, dal momento che lo “spirito
conservatoriale” è interamente sotteso da un progetto professionale, il
Conservatorio e più in generale l’insegnamento dovrebbero avere un ruolo
fondamentale nell’articolazione del mondo amatoriale e del mercato del lavoro
dei musicisti di professione. Da questo punto di vista, il bilancio che si può
trarre dal sistema dei Conservatori è profondamente ambivalente. Da un lato, in
effetti la frequenza dei sistemi d’insegnamento può permettere agli allievi
musicisti di misurare la loro possibilità di successo nel mondo professionale.
Strauss (1970) mostra così che la frequentazione delle scuole d’arte permette
agli artisti di accumulare informazioni sulle loro possibilità di successo, e
sulle condizioni di riuscita sul mercato del lavoro. Allo stesso modo, il peso
dei sistemi d’insegnamento in materia musicale può generare una permeabilità
capillare molto utile fra mondo degli amatori e mondo dei professionisti.
Tuttavia, il ruolo svolto dall’insegnamento
nel campo della musica può essere anche portatore di squilibri demografici che
esso contribuisce a mantenere. Ehrlich (1985) dimostra così che quando la
domanda di spettacoli e di servizi didattici cresce, l’aggiustamento verso
l’alto si compie senza difficoltà. Viceversa, nei periodi in cui la domanda di
musicisti si affievolisce, l’aggiustamento verso il basso dell’offerta di
musicisti è molto più rischioso. Di fatto, coloro che vengono respinti dal
mercato degli esecutori si rivolgono ai mestieri dell’insegnamento. La
sovraproduzione di aspiranti musicisti ne viene ancora rafforzata: più
insegnanti formano più allievi, dei quali le chance di accesso al mercato
professionale sono però sempre più deboli, e s’indeboliscono ancora nella misura
in cui il numero degli aspiranti aumenta. Certi strumenti, come il pianoforte o
il flauto a becco, costituiscono esempi paradigmatici di questo tipo di
distorsione.
L’amatore
pratico: l’altra figura dell’amatore
Malgrado lo spazio occupato dall’insegnamento
e dal “progetto professionale” che da esso viene proposto, la pratica musicale
amatoriale ha potuto, e può ancora pensarsi al di fuori dal questo quadro.
Collocarsi fuori dall’insegnamento, liberarsi dall’imperativo di eccellenza e di
virtuosismo e invece concentrarsi su una pratica più immediata, meno
intellettuale e meno virtuosistica, rivalorizzare la pratica come fine a se
stessa: questi potrebbero essere i tratti per definire un “contro-modello” da
opporre – o da giustapporre – a quello dei Conservatori. In particolare, questo
contro-modello del musicista amatore evita di concepire l’amatore come una somma
di privazioni delle qualità che costituiscono l’interprete professionale;
obbliga a considerarlo come attore a sé stante e non più soggetto in divenire,
nel mondo della musica; un attore la cui pratica, qualitativamente differente,
non può essere ricondotta a quella del professionista.
La nascita di questa figura di amatore come
attore a sé stante del mondo musicale risale circa alla stessa epoca
dell’amatore come professionista in divenire definita dal Conservatorio: se ne
trova una definizione estremamente chiara nel progetto che anima i fondatori del
movimento delle corali popolari [orphéons], studiate da Gumplowicz (1987).
Discepolo di compositore della rivoluzione francese, come Méhul o Gossec,
Wilhelm – uno dei fondatori del movimento – condivide con loro l’idea che il
vero artista è colui che riesce a far cantare il popolo. Il progetto degli
orphéons
è insieme pedagogico e pratico: l’obiettivo che si persegue non è quello di
formare dei virtuosi, ma di far discendere la pratica musicale in tutti gli
strati della società, e in tutti i villaggi di Francia. La pratica musicale a
potuto così concepirsi come fine a se stessa, il che certamente non ne esclude
l’apprendimento, ma non la offre come via d’accesso al mondo della professione.
In breve tempo, questo progetto fu svalutato e
ridicolizzato, il che prova che dei due modelli di amatore che si definirono in
quella stessa epoca l’uno prevalse sull’altro. La pratica amatoriale di cui era
manifestazione non è finora scomparsa, seppur rimane minoritaria. A questo
dualismo delle pratiche amatoriali rimandano i tratti particolari della pratica
del canto corale in Francia: radicato da lungo tempo nella vita sociale,
praticato da cantori spesso più anziani degli strumentisti amatori, il canto
corale rimane una strada d’accesso privilegiata alla pratica musicale, e
contribuisce a definire un universo amatoriale abbastanza diverso da quello
degli strumentisti. Allo stesso modo, certi strumenti sono massicciamente
praticati da musicisti che non si adattano alla figura di amatore definita dai
Conservatori. Così, mentre il ruolo dell’autoapprendimento è nell’insieme
abbastanza debole nell’apprendimento della musica – sopratutto nel confronto con
le altre pratiche culturali – esso si ritrova invece nel caso dei chitarristi o
dei percussionisti: in altri termini, nel caso degli strumenti poco valorizzati
dal repertorio difeso dai Conservatori, ma centrali nella musica rock o leggera.
Questi strumenti possono rinviare molto più facilmente a una pratica musicale
non professionalizzante, che emancipa ancor più il mondo amatoriale da quello
dei professionisti.
Il mondo amatoriale e quello professionale non
sono impermeabili reciprocamente, ma è troppo semplice postulare fin dal
principio che essi partecipino di uno stesso universo per il solo fatto che
entrambi mettono in gioco la pratica musicale. La natura delle loro relazioni,
per lo meno per gli amatori, contribuisce in larga misura a definire quello che
sono. In effetti, i musicisti amatori si trovano in una posizione paradossale:
anche se ignorano largamente il mondo professionale, ad esso sono tuttavia
sottoposti per il tramite del sistema d’insegnamento. Che contribuisce,
imponendo loro un progetto professionale che è loro estraneo
a priori,
a fare dell’amatore una versione degradata del professionista. Preso in questa
relazione paradossale, fatta di estraneità e di dominio, il mondo amatoriale
avrà ben poca influenza su quello professionale: e così si spiega come, volendo
portare ora la nostra analisi sul mondo professionale, gli amatori praticamente
escono di scena.
[….]
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