Primo, la professione
a
colloquio con Donatella Pieri, direttore del Conservatorio "G. B. Martini" di
Bologna
Donatella Pieri è il primo direttore di Conservatorio eletto fra i docenti di
seconda fascia, cioè fra gli accompagnatori. E' stata capace, nel corso del suo
primo mandato - iniziato con ritardo per via della sua posizione "anomala" - di
raccogliere fra i colleghi un consenso unanime, visto che non ci sono state
altre candidature alle elezioni per il suo secondo mandato.
Dove vanno i Conservatori, e dove va quello di Bologna?
Non è facile dare una risposta a una domanda così ampia, anche perché è una
domanda che mette in gioco non solo previsioni ma anche aspettative. Abbiamo
ristrutturato le nostre istituzioni da un solo anno, e i risultati non ci
possono essere ancora. Personalmente difendo alcuni aspetti del “vecchio
sistema”, in particolare la verticalità dell’insegnamento, che è peculiare del
sistema italiano (sistema che forse al di fuori dell’Italia non era abbastanza
conosciuto e quindi valutato). Ma non per questo mi sento di assumere una
posizione contraria al nuovo ordinamento. Certo c’è una certa frammentazione del
percorso, e c’è spesso il problema della sovrapposizione che per motivi vari si
genera, nella frequenza, fra le discipline. Tuttavia prima di trarre delle
conclusioni mi piacerebbe aspettare e vedere come saranno i nostri studenti, al
compimento della formazione, come musicisti.
A Bologna comunque l’orientamento della generalità dei docenti è quello di
accogliere gli studenti dei corsi pre-accademici. Rimane forte la convinzione
che si debba poter seminare su un lungo percorso, e quindi i professori che
accolgono lo studente al suo ingresso nella formazione debbano essere gli stessi
che lo seguiranno fino all’ordinamento accademico. Non si tratta di una presa di
posizione astratta o di principio, ma di una convinzione profonda, fondata sul
concreto della pratica didattica. Questa convinzione qui è fortissima, a
differenza di altri Conservatori dove invece si è preferito affidare i corsi
pre-accademici ad altre figure professionali.
Più in generale sono ottimista – forse per carattere – e non mi piace
lamentarmi. Leggevo da qualche parte un’opinione sulla crisi globale che stiamo
attraversando, secondo cui dalla crisi stessa emergono aspetti che tendono
all’essenzialità. Io penso che stia emergendo un valore di fondo, che è quello
della qualità della docenza. Abbiamo attraversato una ristrutturazione
dell’architettura – griglie, declaratorie, percorsi – ma alla fine sono i
contenuti della didattica quelli che fanno premio. Vedo, e non solo a Bologna,
una tensione verso la salvaguardia della qualità. E rispetto al passato c’è un
arricchimento, in particolare per un aspetto: quello del contatto con la
professione.
Questo - e l’abbiamo voluto io e il consiglio accademico - a Bologna ha portato
alla valorizzazione, per esempio, dell’attività laboratoriale. C’è stato uno
sforzo per avvicinare la didattica e la produzione dell’istituto stesso. Abbiamo
istituito il gruppo barocco, il laboratorio di musica contemporanea, il
laboratorio lirico. Le discipline che hanno programmi annuali li indirizzano
verso i progetti produttivi che annualmente si mettono in cantiere. Per fare un
esempio, abbiamo fatto l’anno scorso una produzione dedicata a Rossini in
collaborazione con l’Università, e il corso di Musica vocale da camera si è
dedicato prioritariamente alla musica da camera di Rossini. Quest’anno, sempre
in collaborazione con l’Università, abbiamo un evento dedicato a Giovanni
Pascoli, e lo stesso corso di Musica vocale approfondisce e prepara opere
scritte su testi di Pascoli. Voglio dire con questo che abbiamo costruito dei
programmi didattici intorno a uno scopo, che è quello della musica praticata e
della professione musicale. In questo modo abbiamo potuto accorpare alcuni
obiettivi didattici all’interno di progetti. Penso per esempio al gruppo
barocco, dove confluiscono insegnamenti diversi come canto barocco, direzione di
coro e altri, e dove studenti di triennio e biennio fanno degli stage formativi
che integrano il loro percorso.
Voglio dire con questo che se la struttura ordinamentale può apparire rigida,
attraverso i contenuti della didattica c’è una possibilità di modularla e
indirizzarla. In questo modo si riesce in qualche misura ad agevolare il
percorso dello studente, che ha davanti a sé dei piani di studio effettivamente
molto densi. Rimane però una certa sofferenza rispetto alla questione della
“centralità” dell’insegnamento d’indirizzo, che in passato era pressocchè
totale. Occorre conciliare questa esigenza con i nuovi piani di studio, e non è
sempre facile perché lo studente ha obiettivamente meno disponibilità di tempo
da dedicare al prorio strumento. Questa è una criticità, e molto sentita.
A proposito di pre-accademici: avete registrato una contrazione nel flusso
della domanda di accesso con la cessazione di licenze e compimenti?
Assolutamente no. E’ come se, per l’utenza, non fosse cambiato nulla.
Avete una rete di scuole civiche sul territorio. E’ prevedibile che
costituiscano in prospettiva un bacino di alimentazione dei trienni?
Ci sono molte scuole civiche e abbiamo eccellenti rapporti, anche se non
istituzionalizzati. Le vedo però come una fonte di “approvvigionamento”
piuttosto per i pre-accademici che non per i trienni.
Hai citato varie collaborazioni con l’Università. Il rapporto con
l’Università è un problema o una risorsa? A Bologna c’è anche il DAMS...
A Bologna – dove l’Università è un gigante – il rapporto è eccellente. Il
Conservatorio è il soggetto che forma alla musica praticata, il DAMS ha altre
finalità e non c’è alcuna conflittualità. So che sul piano generale ci sono dei
timori, personalmente sto ad osservare ma li condivido poco. Penso che bisogna
conoscersi reciprocamente, e a questo proposito mi sembra che i Conservatori in
generale siano un soggetto poco conosciuto all’esterno. Tuttavia sono
dell’opinione che il Conservatorio sia una struttura forte, e non sarebbe facile
costruirgli un’alternativa. O almeno un’alternativa migliore. Perciò su questo
piano non ho timori a rapportarmi con l’Università.
Veniamo all’altra questione sul tappeto, quella dell’accreditamento delle
Accademie private.
Qui sono preoccupata. Penso che la concorrenza può farti del bene, perché ti
stimola. Ma deve essere una concorrenza ad armi pari. Devono essere uguali i
principi, i doveri, i vincoli: a cominciare dai meccanismi di reclutamento del
personale. Dobbiamo pretendere questa parità di condizioni. Altrimenti non c’è
partita. E credo che per chi ha responsabilità di governo, difendere il sistema
pubblico sia un dovere.
C’è anche un problema di risorse economiche, di possibilità di avere dei nomi
importanti nella didattica.
Su questo sono più tranquilla. Non credo alla retorica dei “grandi nomi”, credo
al valore della solidità didattica di docenti che magari non sono grandi nomi ma
sono didatti eccellenti e affidabili, e riempiono le classi. C’è però un altro
terreno che ci renderebbe più competitivi: quello della coltivazione di
indirizzi d’elezione, per le singole istituzioni. Se mi trovo in un contesto, in
un territorio sensibile a un determinato indirizzo, come istituzione vorrei
poter investire verso questo indirizzo. Che sia, per fare esempi, la musica
antica, o la musica elettronica, o gli strumenti dell’orchestra, o la
composizione, si deve poter caratterizzare un’istituzione laddove ce ne sono le
condizioni. Questo conta più dell’avere nomi famosi. E considerando che le
strutture dell’alta formazione sono molte – almeno in certe regioni – sarebbe
molto importante consentire loro di “coltivare” delle vocazioni, che possano
farne un polo di attrazione. E’ in questa direzione che contano i meccanismi di
reclutamento: oggi possiamo solo far ricorso alla conversione delle cattedre.
Questo potrebbe essere un criterio di riequilibrio del sistema, una risposta
all’obiezione che i Conservatori sono troppi?
Anche. Ma non penso che i Conservatori siano troppi. Devono garantire la
completezza e la pluralità dell’offerta per l’utenza più ampia possibile, fino
al completamento del percorso formativo. Il che non toglie che, in una fascia
alta, possano essere portatori di identità differenziate, ed essere in questa
specificità il punto di riferimento di un bacino molto più ampio.
Certo con le risorse che ci sono può sembrare un’utopia. Ma dovrebbe essere
possibile.
Uno degli argomenti della critica al sistema dei Conservatori è quello del
gran numero di studenti di pianoforte. Il corso di pianoforte si è evoluto
abbastanza in direzione di una figura duttile che possa trovare una collocazione
nel lavoro, o continua solo a fabbricare studenti che escono con il medesimo
repertorio di pochi pezzi della letteratura solistica?
Purtroppo non credo che sia avvenuto a sufficienza. In altri paesi esiste per
esempio una differenziazione fra indirizzo didattico e indirizzo concertistico.
Credo però che – a parte i programmi – stia alla sensibilità del singolo docente
di rilevare le caratteristiche dello studente e aiutarlo a indirizzarsi verso la
musica da camera, o la collaborazione con i cantanti, o l’insegnamento dello
strumento. C’è anche un problema di mentalità, e il ricambio generazionale
aiuterà a cambiare la rotta.
Tuttavia non sono favorevole, in linea generale, a mettere in relazione
meccanicamente la configurazione della scuola con quella del mercato del lavoro.
Credo che i Conservatori, distribuiti come sono sull’intero territorio
nazionale, possano invece essere una risorsa importante se ciascuno investe,
insieme con gli enti locali, nella creazione di un circuito di sapere e di
conoscenza intorno alla musica. Per fare arrivare il messaggio che la musica è
una parte fondamentale del sapere, e che può contribuire a far crescere in un
certo modo le nuove generazioni. Questo per noi è, direi, un obbligo.
I Conservatori come sede di produzione musicale.
Sì, dell’organizzazione di eventi e di spettacoli musicali. Nell’ultimo anno e
mezzo, come Conservatorio di Bologna, abbiamo prodotto (autonomamente o in
collaborazione con altre istituzioni cittadine) più di 200 concerti. Certo ci
siamo dovuti organizzare, e non è stato facile. E c’è un risultato importante
anche all’interno: avendo più occasioni di contatto col pubblico, gli studenti
affrontano gli esami in modo completamente diverso, molto più sicuri di sé. E
per di più abbiamo creato, per alcuni di loro, l’occasione per essere accolti
nella produzione di altri enti.
A questo proposito, abbiamo una convenzione con il Teatro Comunale da qualche
anno, e proprio in questi giorni abbiamo fatto le audizioni per l’orchestra, con
una commissione paritetica Conservatorio-Teatro. Quattro o cinque studenti
andranno a suonare lì, con una borsa di studio, su singole produzioni. E’
un’occasione che il Conservatorio procura loro, ed è un’esperienza professionale
importante. Altri due o tre andranno a suonare nell’orchestra Mozart.
Come pensi che il Conservatorio debba porsi rispetto alle “altre” musiche, a
parte il Jazz che ne fa ormai parte organicamente?
A Bologna abbiamo il corso di Musica d’uso. I fondatori ne sono stati Ballotta,
Gualandi, Zanotti. E’ un triennio ordinamentale, ed è un indirizzo compositivo
anche se formalmente risulta una branca di Musica elettronica. Ma risponde a una
vocazione importante della città: tutti i nomi che ho citato prima sono
bolognesi. Fra poco gli studenti di questo corso cominceranno uno stage dedicato
al cortometraggio, abbiamo già preso contatto con la Fondazione Cineteca. Si
tratta di un’attività tipicamente laboriatoriale, e gli studenti verranno subito
a contatto con gli aspetti produttivi.
Certo questo va valutato nell’equilibrio complessivo dell’istituto: su dieci
cattedre, sette sono di Composizione, due di Musica elettronica, e quindi c’è
questa di Musica d’uso. Diciamo un 10 per cento della Composizione nel suo
insieme.
Dal punto di vista della gestione, quali sono le difficoltà del nuovo
sistema?
In generale, la fatica dell’organizzazione della nuova didattica sta nel fatto
che ogni anno, per così dire, si comincia daccapo. Certo c’è la possibilità di
convertire delle cattedre, e lo facciamo quando se ne presenta l’occasione, ma
dipende dai pensionamenti. L’anno scorso abbiamo avuto l’opportunità di una
riconversione abbastanza ampia. Bisogna cercare di reimpostare l’organico in
risposta alle esigenze, e lo stiamo cambiando. Qualche volta rinunciando, magari
con dispiacere, a cattedre tradizionali che sono rimaste senza domanda per molto
tempo. Quello di rinnovare le modalità di reclutamento resta un tema
fondamentale per lo sviluppo dell’istituzione.
Avete un manifesto degli studi?
Sì. Lo abbiamo fatto l’anno scorso, e stiamo lavorando ora all’aggiornamento per
il prossimo. Devo dire che è una fatica improba, ma indubbiamente necessaria, e
risponde anche a un principio di trasparenza. Ci siamo resi conto che questo
strumento è molto più utilizzato dall’utenza studentesca rispetto al regolamento
didattico, al quale peraltro fa riferimento. Certo ci sono dei problemi per la
tempistica. Il manifesto degli studi deve uscire per tempo rispetto alle
scadenze che interessano l’utenza. E deve contenere anche l’offerta formativa,
ma le conversioni di cattedre avvengono solo dopo la pubblicazione del
manifesto....
a cura di Sergio Lattes
marzo 2012
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