Un punto di vista “tedesco”: Francesco Di Lernia, direttore a Foggia
di Sergio Lattes
Francesco Di
Lernia, organista, ha studiato al Conservatorio di Foggia e presso la
Musikhochschule di Lubecca. Concertista affermato, ha inciso per diverse case
discografiche e ha pubblicato studi per Universal. E’ direttore del
conservatorio Umberto Giordano di Foggia dal novembre 2011.
Per il sito aasp.it sei il primo direttore
“meridionale” che interviene. Come vedi le cose?
Ho studiato
7 anni in Germania, dal 1987 al 1994, come organista. Il rientro è stato un bel
pugno nello stomaco, ma non mi riferisco solo al sud dell’Italia. In Germania,
dove già c’era l’alta formazione nella musica, vi erano basi solide e pronte a
recepire il movimento di riforme che avrebbe assunto il nome di “processo di
Bologna”. In Italia, dopo l’approvazione della 508, ho avuto la netta sensazione
che si fossero cambiate le targhe sulle porte, e poco più. Oggi, a distanza di
14 anni, il processo di attuazione della legge non è ancora concluso. Questo è
un problema di tutto il sistema, da nord a sud, un problema del paese.
Sono un direttore giovane e nutro ammirazione nei confronti di alcuni colleghi
della Conferenza più anziani, che nonostante tutto continuano a crederci e a
lavorare con l’entusiasmo di sempre per cambiare il sistema in meglio. Vogliamo
cambiare, ma dobbiamo essere messi in condizione di poterlo fare. La struttura
normativa spesso ci paralizza: basti citare il sistema di reclutamento dei
docenti, che è ancora quello che tutti conosciamo. A volte, temendo il
contenzioso che ne potrebbe scaturire, si ha perfino paura di bandire le
graduatorie. Già nel ’90, quando studiavo in Germania e contemporaneamente
partecipavo al concorso a cattedre italiano, non riuscivo a far capire ai miei
interlocutori esteri la necessità di un tale concorsone nazionale, e perchè ai
Conservatori non fosse consentito programmare la figura di docente di cui
avevano bisogno. In Europa, dopo la pubblicazione di un bando di professorato,
si invitano tre, quattro o cinque docenti, scelti sulla base del curriculum, ad
esibirsi in un concerto pubblico e a tenere una seduta d’insegnamento,
ovviamente con gli allievi. Non si punta quindi solo sulle qualità del solista
ma anche su quelle didattiche, e questo anche in previsione della necessità di
attrarre studenti dall’estero: tutte cose che noi non possiamo fare. Ci rimane
la risorsa degli scambi Erasmus, ma a questo proposito, e lo dico come
coordinatore delle relazioni internazionali del mio conservatorio, devo
constatare che molti giovani scelgono, se possono, di continuare gli studi e
semmai di rimanere nei paesi che li ospitano come studenti Erasmus.
Sarebbe necessaria una rilevazione degli esiti occupazionali (a un anno, a tre
eccetera).
Ci sono dei
consorzi che da poco hanno iniziato ad occuparsi di questo, ma dati certi
relativi ai conservatori non mi risultano. Rispetto alle università abbiamo
numeri risibili, ma sarebbe interessante rilevare questi dati nel breve e medio
termine, tenendo conto di tutte le possibilità di inserimento a livello
mondiale.
A questo proposito ci tengo a dire che, nonostante tutto, in Italia il musicista
riesce comunque a lavorare. Per esempio, noi incontriamo delle difficoltà quando
cerchiamo esterni per le nostre produzioni: troviamo spesso i musicisti già
impegnati. Certo c’è molta precarietà, ma si lavora.
Cerchiamo tuttavia di guardare avanti: dove sta andando il sistema?
Il primo
obiettivo è quello di non farlo implodere. Oggi le istituzioni musicali afam
sono più di 70. Una strada a mio avviso potrebbe essere quella della
diversificazione delle proposte da parte delle singole istituzioni: dopotutto
non siamo scuola dell’obbligo. Ogni territorio può avere una diversa vocazione,
e l’istituzione deve intercettarla e interpretarla. Faccio un esempio pratico:
nel Gargano c’è una tradizione legata agli strumenti a fiato e alle bande.
Sarebbe quindi opportuno assecondarla considerando anche la strategica posizione
geografica che attira molti turisti soprattutto durante il periodo estivo. Solo
così un’istituzione, anche decentrata, può diventare attrattiva. In quanto alla
diversificazione, noi del Conservatorio di Foggia abbiamo già avviato una
sperimentazione spostando presso la sede staccata di Rodi Garganico l’intero
dipartimento di jazz, prima presente in entrambe le sedi. Questa operazione,
difficile da far comprendere a studenti e docenti, è stata necessaria oltre che
per mancanza di spazi presso la sede centrale, anche perché in futuro non sarà
più possibile pensare di raddoppiare dipartimenti così caratterizzati che hanno
bisogno di lavorare insieme ottimizzando le risorse all’interno di due sedi
dello stesso conservatorio. A Rodi Garganico il conservatorio produce un
festival jazz da 9 anni, mentre a Foggia concentriamo l’attività orchestrale e
del dipartimento di didattica.
Questo è un discorso che (temo…) si dovrà iniziare a fare anche su larga scala.
Ovviamente dobbiamo avere gli strumenti normativi che ci aiutino a disegnare
queste strategie: per ora abbiamo solo la (lenta) riconversione delle cattedre.
E le incongruenze normative sono infinite. Ci viene chiesto, giustamente, di
pubblicare il manifesto degli studi a marzo-aprile, ma le riconversioni si
svolgono a luglio (beninteso sentiti i sindacati) e i trasferimenti a ottobre.
E’ difficile fare in questo modo un manifesto degli studi. Ed è difficile far
comprendere meccanismi del genere ai nostri colleghi all’estero.
Eppure ìl nostro sistema deve fortemente internazionalizzarsi se vuole competere
con le accademie private, da una parte, e con le istituzioni degli altri paesi,
dall’altra. Certo siamo deboli sullo scenario internazionale: chi ha pochi posti
fissi e molti contratti, come avviene in altri paesi, è più agile nel
posizionare la propria offerta. Ma noi possiamo puntare sulla qualità e sulla
differenziazione e
per far questo la governance degli istituti deve essere forte e soprattutto
preparata.
Veniamo ancora un momento ai 75 istituti. Che cosa succederebbe se domani un
governo venisse a dirci che solo negli attuali Conservatori si può veramente
attuare il liceo musicale – con strumenti, competenze, aule, biblioteche
musicali che nei licei non ci saranno mai...-, per poi promuovere all’alta
formazione solo poche istituzioni?
Accademie,
quali? Trasformare in Accademie alcuni Conservatori? E chi ci va a insegnare, e
chi no? E chi lo decide, e giudica? Tu conosci il reclutamento dei docenti com’è
avvenuto. Io ho fatto il concorso del ’90 dopo che generazioni intere erano
passate di ruolo con le moratorie dei governi sotto consiglio dei sindacati.
Dopo il concorso ad esami e titoli è arrivato il “riservato”, durante il quale
non era neanche necessario suonare. Poi è venuta la 143, con un altro tipo di
selezione. Oggi ci sono le graduatorie d’istituto, e mentre le stili devi fare
attenzione a coloro che hanno i diritti acquisiti del ‘96. Tutto ciò rende ogni
cosa più difficile e su un terreno come questo è facile fare danni. Ci sono poi,
oggi, degli istituti dove si stipulano contratti per l’insegnamento nei corsi
pre-accademici. E questi giovani spesso sono molto più motivati di altri che
insegnano nell’alta formazione. Allora, lasciamo che siano i fatti a determinare
una selezione fra le istituzioni: i docenti, le scelte operative. Ma se non
avremo gli strumenti per operare in vera autonomia avremo sempre una gamba sola.
E’ anche una questione di scelte economiche. A noi viene richiesto di fare
l’alta formazione senza soldi: come avere una macchina senza motore. Abbiamo
risorse da scuola secondaria e non da alta formazione “universitaria”. Il
Conservatorio di Foggia, ad esempio, organizza più di 100 concerti l’anno, un
festival tra giugno e luglio che è arrivato alla 16.a edizione; abbiamo
un’orchestra sinfonica giovanile, una junior e numerosi ensemble e tutto con le
nostre sole risorse. Abbiamo rapporti con Comune e Provincia, e li stiamo
costruendo anche con le scuole a indirizzo musicale, che sono una ventina, per
uniformare i loro programmi con quelli dei nostri pre-accademici.
La riforma è carta, l’uomo la deve incollare. C’è un anello che manca, ed è il
liceo musicale: poco più di un embrione. Questo ci obbliga a fare i corsi
pre-accademici, per non trovarci al triennio studenti che non hanno gli
strumenti per poterlo affrontare.
Siete fra quelli che assumono ad hoc per i pre-accademici?
No! Sono i
nostri docenti ad insegnare. Il corpo docente è giovane, motivato, e ci tiene a
coltivare gli allievi dei pre-accademici. Il modello “verticale” è tipicamente
italiano, ha i suoi meriti e dobbiamo salvaguardarlo: i corsi pre-accademici ce
lo rendono possibile. All’estero questo modello suscita spesso meraviglia, ma
ora alcuni cominciano a imitarlo. Per esempio, in alcuni paesi europei si stanno
organizzando all’interno delle accademie settori dedicati ai giovani talenti:
una sorta di vivaio che accompagni verso l’alta formazione.
C’è però una
differenza sostanziale: sono giovani talenti, ma in un sistema dove la musica è
presente pervasivamente nella scuola. I nostri conservatori devono fare la loro
selezione su una base estremamente ristretta e casuale, che non rappresenta il
loro territorio.
Ma tornando alla riforma, perché non si riesce a finirla, dopo 14 anni?
Forse non si
completerà mai. E se si completerà, sarà già vecchia. Dalla 508 il mondo è
cambiato, e noi siamo ancora lì.
Veniamo a questioni più specifiche: le norme contenute nella legge di stabilità.
Sull’equiparazione del vecchio titolo al biennio di II livello sono d’accordo.
Anche i programmi del mio conservatorio, per lo più, erano stati strutturati in
questo senso. Tuttavia va registrato il disagio degli studenti iscritti al
biennio dopo il vecchio titolo: a che scopo fare ora il biennio, visto che il
loro vecchio titolo è già equiparato? Anche il discrimine fra il vecchio titolo
conseguito fino a dicembre 2012 e quello conseguito successivamente è fonte di
contraddizioni. Quello che poi trovo assurdo è la piega che sta prendendo la
questione dei privatisti. In nessuna realtà europea esiste la possibilità di
prendere un titolo da privatisti. Prima o poi anche in Italia risolveremo la
faccenda legata al valore legale del titolo, ma forse sarà già tardi. E’ questo
che alimenta la sete di certificazioni che ci contraddistingue da altri paesi,
dove la collezione delle carte non rappresenta l’unica via per dimostrare di
aver fatto qualcosa. Dovrebbe contare soprattutto quello che si sa
effettivamente fare.
Dicevi all’inizio che si sono spesso solo cambiate le etichette sulle porte. Mi
domando spesso se la riforma abbia toccato la didattica o solo l’architettura
curricolare. Per esempio, se sia migliorata la qualità dell’educazione
musicale dello studente di conservatorio...
Diciamo che
la riforma ha dato uno scossone ai più pigri. Il panorama dei docenti è molto
eterogeneo. Alcuni hanno la loro copertina di Linus nel vecchio ordinamento e
nelle sue prove d’esame. Per cambiare il metodo di valutazione della licenza di
solfeggio – “ripete la terza prova, ripete la quinta” – e ottenere una
valutazione unica, ho dovuto fare una circolare formale. Certo si può dire che
la riforma ha investito poco la didattica. Ma molto dipende dal singolo docente,
ed è per questo che si avverte il bisogno di autonomia vera. Quando vedo i
ragazzi uscire entusiasti da una lezione di strumento o di armonia, con la
voglia matta di andarsi a comprare un libro per approfondire meglio il pensiero
di un compositore o comprendere meglio un’analisi o studiare l’armonia sui testi
– come avviene in Germania – e non sui numeretti: è lì che si misura quanto pesa
la qualità del singolo docente.
Infine, le private. Chiedere di chiudere le porte sembra una battaglia persa.
Però all’università, dove il privato c’è da molto tempo, i meccanismi di
reclutamento sono simili. Invece da noi si è data via libera alle istituzioni
private prima di fare il decreto sul reclutamento...
Infatti. Noi
siamo rimasti legati al nostro sistema di reclutamento, mentre le private hanno
mano libera nel reclutare i docenti. Per di più ora c’è il problema dei docenti
di Conservatorio che vanno ad insegnare nelle accademie private: bisogna porsi
seriamente una ipotesi di incompatibilità. Se c’è concorrenza, nessuna azienda
consente che i propri uomini vadano a lavorare per la concorrenza. I privati,
per questo, licenziano in tronco.
Oppure, ci dicano che i Conservatori fanno la formazione fino a un certo punto e
le private fanno l’alta formazione. Ma abbiano il coraggio di dircelo.
Non ci sono solo i professori che insegnano nel pubblico e nel privato, si
vocifera che ci siano anche studenti che frequentano “per finta” una classe di
Conservatorio e, magari col silenzioso assenso del loro docente, frequentano
un’accademia privata per lo stesso corso.
Perché
evidentemente hanno un docente di riferimento nell’accademia privata che gli può
offrire qualcosa di più rispetto al Conservatorio. Ma tutto questo rimanda a una
questione di fondo: quella di un paese che non punta sul pubblico. Anche
in Germania, per tornare al punto, ci sono delle accademie private. Ma c’è una
tale attenzione, un tale senso del pubblico, e del dovere verso il
pubblico, che la Musikhochschule è incomparabile con le altre realtà. Basta
andare a vedere, per capire qual è la grande differenza fra noi e loro.
febbraio
2013
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