I Conservatori, l’Italia,
l’Europa: qualche cifra, e qualche proposta
di Paolo Troncon
direttore del Conservatorio “Steffani” di Castelfranco Veneto
presidente del Consorzio dei Conservatori del Veneto
Le istituzioni AFAM, nel
loro insieme e in prospettiva futura, vivono oggi una situazione incerta che
nel processo di integrazione europeo riguarda il ruolo che sarà loro assegnato.
Che potrebbe essere diverso, per quanto riguarda le istituzioni musicali, da
quello che da un secolo caratterizza i Conservatori italiani. Ciò che da tempo
aspettiamo (il completamento della Legge 508) e non è ancora accaduto, potrebbe
ora subire un’accelerazione in direzioni anche diverse rispetto a quelle
intraviste nel 1999.
Dopo dodici anni la cosa
d’altronde non può meravigliare nessuno: il mondo da allora è profondamente
cambiato, basti vedere la diversa strada intrapresa dall’università che dal 1999
ha già visto tre riforme mentre noi stiamo ancora aspettando il completamento
della prima. La staticità dei processi, o la loro estenuante lentezza evolutiva,
sono nel mondo contemporaneo un vero veleno...
I motivi di preoccupazione
non sono solo quelli che derivano dalla gravissima crisi economica che
attanaglia il paese e che rende incerto il suo futuro, ma anche quelli relativi
alla ancor più profonda crisi politica, che da tempo ci fa mancare punti di
riferimento stabili e attenti alle nostre specifiche esigenze. In questo momento
il governo “tecnico” è sostanzialmente preoccupato di contenere la spesa
pubblica, e come dargli torto fino a che mancheranno all’appello i miliardi dell’evasione fiscale (l’ISTAT ha valutato in 254 miliardi evasione e
sommerso in Italia, il valore dell’intero PIL della Svizzera!) e fino a che,
come si legge sui giornali tutti i giorni, i soldi pubblici continuano a essere
spesso buttati via o spesi malamente.
È prevedibile quindi che
fino a che l’economia (e anche la cultura civica) non si stabilizzerà ed eleverà,
saranno richiesti sacrifici o cambiamenti anche al nostro settore, finora
toccato solo marginalmente, considerando la nicchia che l’AFAM rappresenta (un centinaio
di istituzioni, personale di circa 13.000 unità, un costo complessivo annuo di
meno di 500 milioni di euro per lo Stato).
Ma per trovare il giusto
equilibrio tra buona gestione delle risorse (anche in un quadro di
contenimento), efficienza del sistema e valore dei risultati ottenuti, non
possiamo solo sperare nella “politica”, un mondo verso cui abbiamo nutrito
troppe aspettative. Alla politica serve un valido e credibile interlocutore. Ma
in generale oggi nessuno, tra chi avrebbe il potere di farlo, pare in grado di
avere una visuale lunga nonché l'autorevolezza per mettere tutti d’accordo nel
pensare e realizzare un concreto sviluppo del sistema delle istituzioni
artistico-culturali italiane.
Per “fare di necessità
virtù”, cioè per venire incontro alle esigenze di una migliore ed efficiente
gestione delle risorse pubbliche, e al tempo stesso dare innovazione e
potenziamento alle istituzioni, tutto il sistema andrebbe ripensato senza tabù
(ruoli e distribuzione territoriale delle istituzioni, governance,
autonomia, formazione dei quadri e delle figure con responsabilità negli organi
di gestione e di governo, ecc.).
Questo perché è
impossibile trovare la quadratura del cerchio cercando di risolvere a pezzi i
grandi problemi del sistema, senza avere il controllo e una visuale strategica
complessiva d’insieme. È come se in una partita a scacchi ci si concentrasse a
proteggere solo il cavallo, lasciando indifesi alfieri e torri! Il re così dura
poco…
E anche la visuale della
difesa occupazionale, quella che più interessa al personale e generalmente
influisce in questi processi, andrebbe rivista in relazione al concreto
possibile sviluppo delle istituzioni che danno il lavoro allo stesso personale.
Andrebbe difesa non solo la garanzia del posto di lavoro, ma anche la
possibilità di lavorare in un luogo stimolante e ricco di opportunità, e questo
dipende essenzialmente dallo stato di salute (non solo economico)
dell’istituzione dove si presta servizio. L’interesse individuale può passare
solo attraverso l’interesse istituzionale. Se la nave affonda, il destino del
marinaio è sempre segnato! Bisogna quindi prima di tutto pensare alle
istituzioni.
Bisogna inoltre pensare
alle nuove generazioni, che oggi sono ai margini per gli errori dei loro
padri e non sono difese sindacalmente: non possiamo basare le riforme solo su
chi oggi il lavoro già ce l’ha, escludendo masse di diplomati che potrebbero
dare linfa vitale alle nostre istituzioni. Un sistema che non pensa al proprio
futuro per garantirne la propria sopravvivenza e il proprio sviluppo, è già
morto in partenza!
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Pur offrendo il nostro
sistema punte di qualità molto elevate, rimangono
nella cultura dei docenti, nella governance, nell'assetto
complessivo del nostro sistema, molti tratti superati se non anacronistici. Che
forse andavano bene negli anni ’80 del secolo scorso, ma non più oggi.
È sempre difficile vedere
dall’interno i propri difetti, ma se guardiamo le cose con sguardo europeo,
almeno per i macro-fenomeni, qualche riferimento si evince chiaramente.
Possediamo primati non spiegabili con la logica dell’efficienza e della buona
organizzazione del sistema, ma piuttosto con l’avvenuto prevalere di logiche
esterne o concessioni di natura sindacale o politica.
Da un documento
dell’Associazione Europea dei Conservatori (AEC) del 2010 sui sistemi nazionali
dell’alta formazione musicale, nel quale vengono monitorati ben 31 stati,
(link: http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&ved=0CCUQFjAA&url=http%3A%2F%2Faec.cramgo.net%2FBeheer%2FDynamicMedia%2FPolifoniaotherPublications%2FPublication_NationalMusicEducationSystems-EN.pdf&ei=UoI8UJz9EonS4QTM1YHoBQ&usg=AFQjCNEG6x0fA37N36SY3o8N0zbOVHGuMw&sig2=sSEQXUgGgMvTjPHmTTKGgg)
si evincono interessanti informazioni.
Comparare i sistemi da
nazione a nazione è molto complesso, perché anche se tutti stanno andando verso
gli indirizzi del cosiddetto “processo di Bologna”, ancora (per esempio in
Francia) permangono tratti nazionali che non rendono completamente
sovrapponibili i dati da un sistema all’altro. Gli stessi dati poi non appaiono
sempre del tutto “veritieri”, nel senso che non sono sempre bene espressi nello
studio (a seconda delle schede), e quindi non direttamente comparabili.
D’altronde anche in Italia, che tra i primi si era mossa con la riforma, le cose
ancora sono ancora in itinere… Infine stiamo parlando di una rilevazione
di due-tre anni fa. Prendiamo quindi i dati col beneficio d’inventario, e
vediamo le situazioni più generali.
Partiamo dall’Italia. Oggi
il sistema dell’alta formazione italiano prevede 54 Conservatori (non conto le
quattro sedi staccate), 20 IMP e due Accademie private (Siena jazz e St. Louis
di Roma) che hanno
tutti titolo a rilasciare diplomi accademici (quelli per intenderci del D.P.R.
212 del 2005). In totale 76 autonome istituzioni (significa 76 Direttori, 76
Presidenti, 76 C.d.A., 76 Consigli accademici, ecc.).
Escludendo Siena Jazz (che
rilascia solo diplomi di primo livello in jazz in base al DM 193 del 2011, e
senza contare Saint Louis di Roma, fresca new entry che rilascia anche titoli di
II livello>>) gli
studenti iscritti ai corsi accademici (I e II livello, più altri corsi
post-diploma) sono, tra Conservatori e IMP, esattamente 12.971 (dati
CINECA a.a. 2011-12:
http://statistica.miur.it/scripts/AFAM/vAFAM1.asp).
Se poi aggiungiamo gli attuali iscritti ai corsi superiori del vecchio
ordinamento (che sono 5.400) abbiamo in Italia un potenziale di 18.371
studenti che possiamo ritenere di fascia superiore (alta formazione).
In rapporto con la
popolazione italiana (61.261.254 abitanti nel luglio 2011) abbiamo quindi
un’istituzione superiore di alta formazione musicale ogni circa 817.000 abitanti
e in media ogni istituzione pubblica (sempre non contando le sedi staccate) ha
248 studenti di livello AFAM.
Questo dato potrebbe
apparire positivo (molti studenti, molte istituzioni diffuse sul territorio),
ma, insieme ad altri parametri, non corrisponde a quello che succede nelle
organizzazioni degli altri paesi europei. Bisogna allora indagare a fondo le
ragioni.
Nel 1980 questi dati
potevano essere perfetti (si studiava musica pressoché solo in Conservatorio),
ma oggi in Italia (come avviene da tempo nella maggioranza dei paesi europei nei
quali la preparazione pre-accademica avviene nella scuola primaria e secondaria
e nelle scuole di musica pubbliche e private), i luoghi dove un ragazzo può
iniziare e seguire fino ad un certo livello lo studio di uno strumento sono
molti. Per il settore pubblico ci sono in Italia oggi un migliaio di scuole
medie ad indirizzo musicale (SMIM), una sessantina di Licei musicali
ordinamentali, e nel settore privato, o municipale, una miriade (credo decine di
migliaia, sarebbe opportuno censirle tutte) di scuole di musica, bande, cori,
ecc.
A ciò vanno aggiunte (come
livello concorrenziale a quello dei Conservatori) le accademie private ancora
non autorizzate dal MIUR a rilasciare diplomi accademici, ma che probabilmente
presto lo saranno, anche se manca ancora una normativa chiara che specifichi le
condizioni e i servizi che tali enti privati devono comunque adempiere e offrire
nella loro funzione pubblica riconosciuta.
Sempre a riguardo della
possibilità per enti privati di svolgere alta formazione riconosciuta dal MIUR
(prevista dalla normativa, cfr. il D.P.R. 212 del 2005, art. 11), ogni “guerra
di religione”, ogni contrapposizione ideologica “pubblico vs privato” sarebbe
del tutto anacronistica, oltre che inutile. In Europa è abbastanza diffusa,
anche in campo musicale, la “coabitazione” nello stesso sistema tra istituzioni
di alta formazione pubbliche e private (per esempio in Austria, Bulgaria,
Germania, Portogallo). Ma per un corretto equilibrio e una migliore efficienza
del sistema va accuratamente evitata ogni possibilità di creare “concorrenza
sleale” rispetto alle istituzioni pubbliche, oggi spesso non del tutto libere di
realizzare le proprie autonome programmazioni a causa di un sistema
dell’autonomia ancora poco rodato e limitato, e di un sistema di reclutamento
inadeguato, poiché tipico della scuola primaria e secondaria, che non ha
riscontri nelle principali istituzioni di alta formazione musicale europee.
La possibilità per le
istituzioni pubbliche italiane di alta formazione di selezionare il proprio
personale e di valutarlo per quello che esso svolge rispetto agli obiettivi
istituzionali decisi (come avviene nel privato) è una condizione essenziale per
rendere attrattivi i nostri Conservatori al pari dei migliori Conservatori
europei che oggi hanno una maggiore richiesta da parte di studenti da tutto il
mondo.
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Delle 250 istituzioni
dell’alta formazione censite dall’AEC, quelle italiane rappresentano il 30% del
totale, pur avendo l’Italia il 10,4% della popolazione dell’insieme dei paesi
censiti! Solo la Germania pare abbia più studenti di livello superiore di noi
(20.000), ma le istituzioni di alta formazione tedesche sono 24 Musikhochschulen
(statali) più nove Hochschulen für Kirchenmusik, otto Conservatori privati (su
base regionale), e Università dove si studia anche musica.
In Spagna c’è una
istituzione di alta formazione musicale (27 in tutto) ogni 1.700.000 abitanti.
In Gran Bretagna ci sono nove Conservatori (ma varie università che offrono
specializzazioni su specifici settori). In Francia i Conservatori regionali non
rilasciano diploma bachelor come i nostri Conservatori, e quindi sono 22 le
istituzioni dell’alta formazione da conteggiare. E ancora: otto in Polonia,
quattro in Danimarca, sei in Svezia, nove in Romania, nove in Olanda, ecc. In
Turchia (paese emergente in grande crescita con 75 milioni di abitanti) le
istituzioni di alta formazione musicale sono 14!
Rimando comunque al testo
citato per una necessaria più approfondita analisi. Ripeto che i dati vanno
letti in profondità e non si possono fare facili confronti. Va ricordato che
spesso i Conservatori all’estero non sono esclusivamente musicali come i nostri,
ma contengono dipartimenti di danza o di teatro. Inoltre il termine
“Conservatorio” è per lo più usato non per la formazione accademica (alta
formazione), ma per la formazione musicale specifica pre-College.
Da uno sguardo complessivo
alla situazione europea appare evidente la discrepanza concettuale tra la nostra
filosofia di organizzazione del sistema, e quella degli altri paesi. “Diverso”
non significa certo “peggiore”, ma qualche problema di integrazione queste
differenze prima o poi lo faranno scoppiare, se pensiamo di restare in Europa.
Ci sono poi differenze
positive e differenze negative. Quando però una soluzione è adottata solo da
uno, forse non è la migliore. Siamo gli unici che prevedono l’inizio dell’anno
accademico al 1 novembre. Che la cosa sia del tutto non funzionale è dimostrato
dal fatto che tutti gli altri iniziano in una data compresa tra fine agosto e
inizio ottobre (anche nei paesi più caldi del nostro). E il MIUR non pare
rendersi conto della cosa, continuando a posticipare le procedure dei
trasferimenti del personale a fine estate (anche quest’anno la scadenza delle
domande è il 5 settembre, mentre in Europa già inizia il primo semestre
dell’a.a. 2012-13), con la conseguenza che, anche volendo, l’anticipo
dell’operatività dell’anno accademico attuato dai Conservatori che lo hanno
deciso si rende sempre problematico.
Siamo quasi gli unici
(avviene per esempio in qualche Conservatorio spagnolo e svizzero) a prevedere
per norma nello stesso istituto sia la formazione accademica, sia quella
pre-accademica (pre-College). Da noi, come noto, tutte e 74 le istituzioni
pubbliche lo fanno. Ci sono in verità vari casi di Conservatori all’estero che
attivano “Junior Department” per talenti giovani, ma non come da noi, diciamo la
verità, anche per riempire le classi quando esse non sono del tutto piene…
I nostri corsi
pre-accademici sono pienamente legittimi e legittimati dalla normativa vigente
(cfr. il D.P.R. 8
luglio 2005, n. 212, art. 10, comma 4, lettera g, e i Regolamenti didattici
d’istituto che li prevedono, esplicitamente approvati dal MIUR)
ma non possono scadere a livello di scuola di musica di paese per risolvere
impropriamente problemi che andrebbero affrontati in altro modo. Se sono corsi
di formazione per colmare le lacune di chi vuole iscriversi ai Trienni, oltre il
90% degli iscritti ai pre-accademici dovrebbe poi iscriversi al I livello.
Vedremo tra qualche anno quale sarà la percentuale di mortalità tra chi si
iscrive ai corsi pre-accademici.
Questa situazione deriva
anche dal fatto che gli organici sono sostanzialmente quelli che c’erano nei
Conservatori prima della riforma (salvo qualche conversione di posto intervenuta
negli ultimi anni), con la permanenza in certi Conservatori di una distribuzione
delle cattedre squilibrata (e motivata da esigenze antiche e superate), il tutto
a prescindere dalle esigenze concrete e attuali dei Conservatori e
indipendentemente dalle strategie che le istituzioni si vogliono dare nel
prossimo futuro.
Insomma il nostro sistema
reale non è ancora in linea con quello della maggioranza dei paesi europei: è un
miscuglio tra il vecchio sistema e quello previsto dal processo di Bologna. Un
fritto misto che non è ancora (dopo dodici anni!) né carne, né pesce.
Non che all’estero per questo stiano sempre meglio di noi. Ma di sicuro, ed è
questo il problema, noi non abbiamo un indirizzo, una strada chiara da
percorrere (o la percorriamo troppo lentamente). Abbiamo il vezzo di andare
avanti con circospezione e sospetto, preoccupandoci soprattutto di salvaguardare
le caratteristiche del precedente sistema che ci fanno comodo al di là
dell’obiettiva valutazione della loro effettiva efficacia e utilità per il
sistema stesso. Non è questo un buon metodo per potenziare il sistema, e neppure
per salvaguardare quel che c’era di buono nel vecchio ordinamento.
____________________
Il futuro. Guardando
globalmente a quel che succede in Europa bisognerebbe subito decidere quale
modello adottare per poi studiare come tradurlo nella nostra realtà. I problemi
riguardano il miglior rapporto distributivo delle istituzioni sul territorio
nazionale, i diversi ruoli da attribuire alle istituzioni musicali accreditate
(tra le quali anche le università potrebbero rientrare), del rapporto tra
istituzioni pubbliche e private, della possibilità di aggregare in uno stesso
istituto la musica con altre forme artistiche performative, della formazione dei
docenti non solo per insegnare nella scuola media, ecc.
La prima scelta è tra un
sistema misto Conservatorio/Università come avviene in molti stati (specie
quelli anglosassoni), oppure se mantenere sostanzialmente l’assetto attuale con
soli Conservatori (compresi gli IMP). Io francamente propendo per la seconda
ipotesi, per la tradizione secolare che l’Italia possiede nel campo della
formazione musicale, ma naturalmente vanno studiate tutte le soluzioni.
Mi pare poi che i modelli
tedesco e spagnolo, e in parte il francese, nonostante siano anch’essi in
evoluzione, sempre sotto il profilo generale più si avvicinino al nostro. Per
tradurlo in Italia si rende però necessario attuare una divisione di ruoli tra
Conservatori, rinunciando all’imperativo: “tutti uguali nelle funzioni e nei
ruoli”.
Questa vecchia
impostazione non credo sia infatti più difendibile a lungo, perché più crescono
le esigenze, maggiori servizi vengono richiesti e i piccoli Conservatori, sotto
certe dimensioni, non ce la faranno da soli. Il rischio insomma è che se non ci
“razionalizza” il governo, ci penserà comunque il “mercato” a farlo!
Procedendo nel processo di
“armonizzazione” (che a differenza del concetto economico di
“razionalizzazione”, implica più obiettivi, anche positivi, nell’azione
riformatrice), vanno valutate attentamente le soluzioni che oggi sono in
discussione in parlamento e le possibilità che l’atteso DPR sulla programmazione
del sistema dovrebbe presto fornirci.
Ritengo inoltre non più
derogabile lo svolgimento di un serio ragionamento che valorizzi le esperienze
svolte in questi anni dai Conservatori su base regionale o interregionale,
perché alle diverse esigenze che nascono dalle varie parti del paese possono
essere date diverse risposte valide, senza per questo rinunciare ad una regia e
ad un controllo nazionale. Senza strumentalizzare questi discorsi, andrebbe
studiato un sistema centrale con poche e chiare regole comuni a tutti, lasciando
maggiore libertà alle istituzioni di caratterizzarsi e decidere eventuali
aggregazioni sulla base delle proprie esigenze territoriali.
Mi fermo qua nella
speculazione, ma rilevo una cosa importante. Più che il nome della nuova “cosa”,
e anche il numero finale dei Conservatori, sarà fondamentale definire le
prerogative, gli strumenti, il governo delle nuove istituzioni. Questi dovranno
essere molto diversi da quelli attuali, guardando ai migliori modelli europei
(perché faticare tanto se abbiamo già dei buoni esempi sperimentati e
collaudati?).
Se poi, come si costuma in
Italia, la riforma consisterà nel cambiare i nomi e lasciare tutto come prima,
allora sarà stato un fallimento: disastroso per tutti.
settembre 2012
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