Il 28 settembre 2011
è stato emanato il Decreto Ministeriale “Modalità
organizzative per consentire agli studenti la contemporanea iscrizione a
corsi di studio presso le Università e presso gli Istituti Superiori di
Studi Musicali e Coreutici”.
Esso adempie la
“promessa” contenuta nella legge di riforma dell’Università (240/2010)
di consentire e disciplinare la frequenza simultanea di Conservatorio e
Università da parte dello studente.
Questo articolo della riforma universitaria era stato
introdotto sotto la viva pressione dei Conservatori, per la
preoccupazione che l’incompatibilità fra le due frequenze potesse
determinare una drastica perdita di iscritti da parte dei Conservatori.
Ora si delinea un sistema di collegamento fra i due ordini
istituzionali, con verifica e approvazione dei piani di studi da parte
di entrambe le istituzioni (art. 1 c. 3), con un “tetto” di 90 crediti
annui che le istituzioni debbono “accettare” e coordinare fra loro (art.
2 c.1) anche “previa eventuale individuazione di un referente per
ciascuna Istituzione al fine di favorire il raccordo tra le stesse”.
Su questo decreto, sulle prospettive che apre, e sui suoi
limiti, qui sotto uno scambio di idee fra Patrizia Conti, direttore del
Conservatorio di Genova, e Sergio Lattes per www.aasp.it.
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(S.L.) Intanto, è vero che l’incompatibilità avrebbe
svuotato i Conservatori? I nostri diplomati hanno prospettive peggiori,
oggi, di quelli di Scienze Naturali o Lettere ecc.?
(P.C.) Personalmente non ho mai interpretato la doppia
frequenza come necessaria per non svuotare i Conservatori. Il fatto è
che, storicamente, i nostri studenti erano abituati a sostenere ritmi
molto pesanti e pressanti: due scuole sin dalle Medie, con tutte le
conseguenze connesse. Dunque la maggior parte, dopo la maturità, si
iscriveva anche all’Università senza particolari problemi. Da una
parte c’era la necessità, sacrosanta, di una formazione culturalmente
più ampia (gli studi musicali ante-riforma erano studi di tipo puramente
professionale, non culturale); dall’altra, per una percentuale di
studenti (ma soprattutto per i loro genitori) il desiderio di prendere
comunque un “pezzo di carta”.
Ora il panorama è cambiato: il nostro pezzo di carta vale quanto quello
universitario, sia giuridicamente parlando sia in termini di possibilità
di lavoro. Dunque non è tanto il rischio di cali numerici fra gli
iscritti, a mio avviso, a farci salutare positivamente questo decreto.
Più semplicemente, in questo modo gli studenti possono fare ciò che
hanno sempre fatto: completare il loro percorso musicale parallelamente
ad un percorso universitario, senza dover scegliere a 18 anni di “fare
il musicista” perché, questa, è una cosa che oltre certi limiti non si
può scegliere. Soprattutto oggi.
Riusciranno Davide
e Golia a gestire insieme l’equilibrio dei due piani di studio senza che
l’uno consideri l’altro come secondario?
Questo non è un problema particolarmente complesso:
richiederà tempo e lavoro alla segreteria didattica e l’istituzione di
una figura interna di riferimento, ma si tratta in fondo di controllare
che Uni + Cons non faccia più di 90 CFA, non è difficile. Sul peso
specifico da assegnare all’uno e all’altro percorso, saranno gli
studenti ad individuare le loro priorità, non le istituzioni.
Non sarebbe ora di mettere mano a uno degli aspetti più interessanti
della riforma, ossia ai piani di studio congiunti
Uni-Cons che possano aprire la strada a nuove figure professionali,
in aggiunta a quelle tradizionalmente formate dai Conservatori?
Si tratterebbe prima di tutto di capire bene quali sono
queste famose “nuove” figure professionali necessarie… Necessarie a
cosa? O a chi? Io, per il momento, vedo solo spuntare corsi che
rincorrono piccolissime opportunità di lavoro, talvolta addirittura
speculando sull’ingenuità e sulla disperazione dei giovani musicisti.
Faccio un esempio: corsi per “Maestro accompagnatore per la danza”,
pubblicizzati come svolta lavorativa, per l’insegnamento nei licei
coreutici. Accorrete! Peccato che nelle locandine nessuno dice loro che
i Licei coreutici sono, in Italia, solo 5….
In ogni caso il discorso è serio ed importante: nuove
figure professionali esistono davvero, senza avere un percorso formativo
alle spalle dunque spazi di interventi esistono sicuramente, in una fase
successiva al conseguimento del titolo di primo livello, come
specializzazione (al contrario, il rischio è di offrire un corso da
hobbysti dove si fa un po’ di tutto e un po’ di niente; un po’ di musica
e un po’ di architettura, un po’ di musica e un po’ di ingegneria...).
La figura professionale del musicoterapeuta, ad esempio, ben si
inquadrerebbe in questo discorso di titolo congiunto rilasciato da
Conservatorio e Facoltà di Medicina a patto che esso si collocasse DOPO
il conseguimento di due precedenti titoli specifici, uno musicale e
l’altro medico. Ma per fare tutto questo servirebbero risorse,
bisognerebbe potersi permettere il lusso di attivare un corso
costosissimo con un numero molto limitato di allievi… cosa che non si
può fare, oggettivamente. Se si abbassa il titolo e si costruisce un
corso “nuovo” tanto per dire che si fa un corso nuovo, allora si vende
fumo.
Però, permettimi di insistere. Può andar bene restringere il discorso al
secondo livello, per assicurare il compimento di una formazione
musicale. Però i Conservatori hanno una popolazione maggioritaria di
pianisti “solisti” e di compositori “puri” che non hanno sbocco
professionale, neppure più nell’insegnamento dopo l’istituzione del
Biennio didattico, e il mantenimento di queste specialità risulterà
sempre più difficile da motivare, se non come “formazione di base” per
altre professioni.
Che esistono: citando
alla rinfusa, organizzatore musicale, giornalista e critico, redattore
musicale nei mass-media, assistente alla produzione e alla
post-produzione audio, esperto di acustica, di inquinamento acustico, di
trattamento e restauro dei documenti sonori, fonico e ingegnere del
suono, fonico per il teatro, progettista sonoro (per musica, multimedia,
internet, cinema, televisione, sistemi interattivi), tecnico degli
archivi sonori, tecnico di editoria elettronica musicale. E poi
accordatore, costruttore, commerciante di strumenti, esperto di
marketing nell’organizzazione, nell’editoria e nella produzione
musicale, direttore editoriale nelle edizioni musicali, esperto di
educazione al suono e alla msica nella scuola dell’infanzia,insegnante
di educazione musicale nel ciclo di base, animatore musicale in comunità
con finalità sociali, per il tempo libero, per il turismo.....E via
elencando (*)
Scusa la lungaggine. Non sono tutte figure che hanno bisogno di una
formazione musicale seria, ma non solo conservatoriale e
anche
universitaria? Limitarsi a ragionare sull’ingegnere che suona il
violino, o sull’avvocato che suona il pianoforte è una “mission”
importante per la diffusione di una buona cultura musicale, ma non tanto
per la formazione professionale, mi sembra.
Il 90% delle professioni individuate nella road map
stilata nel 2005 e presentata al Convegno milanese ha oggi una sua
collocazione, a livello formativo: tutte le figure connesse
all'operatore musicale di base trovano un riscontro solidissimo nei
percorsi di primo livello in Didattica della musica già esistenti. La
stessa cosa può dirsi per quel gruppo di professionalità legate alla
multimedialità. I tenui confini fra l'uno e l'altro mestiere possono
assomigliare alle differenze che esistono fra un pianista specializzato
in musica del tardo Settecento con uno specializzato in secondo
Novecento, sempre pianisti sono! Il rischio di creare un corso
specialistico per ogni minima sfumatura del profilo professionale è
enorme e, ripeto, potrebbe addirittura configurarsi come operazione di
"sfruttamento" dell'emergenza, in un periodo così difficile dal punto di
vista occupazionale. In assoluto, io credo che per affrontare
l'emergenza- lavoro occorra, al contrario, fornire ai nostri studenti
una formazione il più possibile ampia ed "elastica”, adattabile (con una
formazione seria ma anche con la loro intelligenza e le loro reali
capacità) alle diverse opportunità che potranno incontrare sulla propria
strada. Chiudere la loro formazione secondo una logica di
iper-specializzazione in un solo e piccolissimo ambito è davvero
pericoloso. Certo, del tuo elenco restano fuori gli accordatori, i
costruttori, ma occhio: le nostre istituzioni sono formative e non
professionalizzanti: quelli sono "mestieri" per i quali potrebbe essere
necessario, piuttosto, un titolo di scuola media superiore di II grado
professionalizzante (come il vecchio istituto professionale). O la
bottega, come è sempre stato.
Non voglio dire, è ovvio, che non ci siano spazi per
formazioni di tipo specialistico (piuttosto, mi concentrerei sui
Master), voglio soltanto riportare coi piedi per terra sia le
istituzioni che inventano corsi inconsistenti sia gli studenti che
rincorrono l’ennesimo titolo specialistico. L’esperienza dell’Università
dovrebbe pur averci insegnato qualcosa…
Questo decreto potrebbe costituire una spinta verso una maggiore
collaborazione fra Università e Conservatori?
Normativamente parlando, questo decreto non avvicina
Università e Conservatori, semplicemente li rende, appunto, compatibili.
È vero però che questo “obbligatorio” contatto fra le due istituzioni
permetterà all’Università di conoscere meglio i Conservatori attuali e,
forse, di sfruttare meglio quelle preziose convenzioni didattiche già
attive da anni in virtù delle quali gli studenti universitari
inseriscono nel loro piano di studi discipline dei corsi del
Conservatorio e viceversa.
(*)
dal documento “Professioni musicali” presentato da Annibale Rebaudengo
al Convegno Nazionale dei Conservatori, Milano 2005
Ottobre 2011