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ASSOCIAZIONE PER L'ABOLIZIONE DEL SOLFEGGIO PARLATO
L'alta formazione musicale in Italia

INTERVENTI

 

Una sconosciuta alla nostra porta...

Dialogo con Luisa Ribolzi, vice-presidente ANVUR e coordinatrice del Gruppo di lavoro sull'Afam in seno ad Anvur


di Sergio Lattes

 

Luisa Ribolzi ha insegnato sociologia dell’educazione alle università di Bari e di Genova. Ha fatto parte di numerose commissioni ministeriali e comitati scientifici, e ha rappresentato l’Italia nel consiglio di amministrazione dell’OCSE CERI dal 2007 al 2011
E’ vice-presidente di Anvur dal maggio 2011
Ha coordinato nel 2013 - 2014 il Gruppo di lavoro sull’Afam istituito in seno ad Anvur

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Lei ha coordinato il Gruppo di lavoro che Anvur ha istituito sul comparto Afam e che ha lavorato nel corso del 2013.

Il gruppo di lavoro ha fatto un lavoro utile, ha messo sul tavolo in modo “non ideologico“ tutta la problematica del settore, e quelle dei due sotto-settori (Conservatori e Accademie) che sono molto diversi fra loro, pur avendo anche degli elementi in comune.

Il problema di fondo mi sembra non solo quello della formazione di bravi esecutori, compositori e quant’altro, ma quello della cultura musicale nel Paese, che dovrebbe essere molto più diffusa e molto più precoce. Parlo della creazione dei fruitori, del pubblico: se un ragazzino non è mai stato a un concerto, non ha sentito musica, non ha mai fatto pratica musicale, da adulto difficilmente andrà ai concerti, comprerà i dischi eccetera. Quello della creazione del pubblico è obiettivo non meno importante di quello della diffusione della pratica e della produzione musicale.

Questo è certo il problema dei problemi. Ma è realistico oggi, con la situazione che c’è, con i costi che andrebbero sostenuti, con le priorità che si pongono alla politica e alla pubblica opinione,  proporre l’obiettivo di una diffusione generalizzata della musica nella scuola come priorità nazionale? Chi sosterrebbe una cosa del genere?

Si potrebbe fare se i decisori politici capissero che questa non è una spesa ma un investimento. D’altro canto se si pensa all’espressione artistica come un settore che dev’essere assistito non si va lontano. Lo Stato deve mettere le persone in condizioni di esprimersi, e deve – come compito dell’istruzione generale, ben al di qua della formazione specialistica, diffondere cultura musicale, conoscenza delle arti. Invece la Storia dell’arte è stata abolita in quasi tutti gli ordini di scuola, e purtroppo entrano in gioco a questo proposito anche le “lobbies disciplinari”, e i relativi rapporti di forza.

Mi rifaccio la domanda: nel momento in cui un Paese si rende (finalmente) conto che non riesce a insegnare veramente l’inglese ai suoi bambini e ragazzi, più altre molte cose che vengono avvertite come priorità, si può pensare che venga posta come esigenza generale quella di dare a tutti un’educazione musicale decente, con i costi che comporterebbe?

Detto così, la risposta “no” sembra implicita. La mia risposta è che si dovrebbe. In Italia l’importanza della conoscenza dell’inglese e l’importanza di una diffusione della cultura artistica e musicale sono quantomeno pari. L’inglese è uno strumento, la cultura artistica e musicale è un contenuto e un valore. Che poi si sappia bene l’inglese anche per venderla all’estero, è ovviamente necessario. Vede: io mi occupo di Università e - mi perdoneranno i miei colleghi - gli studenti non vengono dall’estero a studiare in Italia, che so, giurisprudenza o biologia. Vengono a studiare musica, e arte. Si tratta di creare un modello in cui la spesa per la cultura non sia puro assistenzialismo ma investimento in beni culturali, quindi qualcosa che potrà avere un ritorno; e di comunicare e far circolare questo modello.

Certo c’è un problema generale, quello di programmare oltre il breve periodo, che è nostro difetto tipico. Investimento vuol dire che per un periodo si spende, in vista di un rendimento che arriva poi.

Il comparto dell’alta formazione artistica e musicale è abbastanza atipico, e in qualche modo auto-referenziale. Lei è arrivata a occuparsene provenendo da tutt’altro campo, come un esploratore inviato in una terra sconosciuta. Come le è sembrata?

Certo la prima domanda che viene da farsi è se insegnare l’arte sia un ossimoro. Anche se oggi le finalità del comparto non sono solo quelle di formare gli artisti, ma anche tutte le professioni che ruotano intorno all’arte e alla musica. Certo nella formazione musicale vera e propria gioca un elemento particolare, che è il talento: qualcosa che non si insegna. Dico, il grande talento. Ma quanti dei giovani che sono passati per Conservatori e Accademie si possono definire “artisti”, cioè eccellenze? La risposta più ottimistica è: fra il 3 e il 5%. Il problema dunque non è questo, non è questo che legittima il sistema. Il problema è quello della fascia immediatamente inferiore, l’insegnamento delle tecniche specifiche (le “technicalities”) in modo tale che ciascuno possa realizzare pienamente le sue aspettative e anche le sue competenze e attitudini. Si tratta dunque di allargare lo spettro delle professioni cui l’istituzione prepara. Ma anche, per i profili “tipici”, mettere le persone in condizione di realizzare appieno i loro talenti: questa è la responsabilità delle istituzioni.

Questo discorso conduce a quello della docenza. Il rapporto qualitativo maestro-allievo in questo settore è centrale, e incomparabile con quello di altri (e per questo non ha senso la polemica, che pure sulla stampa c’è stata, sul numero di insegnanti eccessivo, o sul numero di studenti per docente troppo basso). La questione è invece quella della selezione dei docenti, che oggi è ancora una non-selezione, affidata a criteri da scuola secondaria. Sento dire – lei me lo potrà confermare – che oggi per gli artisti o musicisti importanti non è più un titolo d’onore insegnare in un Conservatorio. Preferiscono fare master-class o corsi di perfezionamento in giro: i meccanismi di reclutamento spesso fanno sì che un artista importante possa essere penalizzato a favore di un collega che abbia, per esempio, maggiore anzianità. E a questo si aggiunge il fatto che gli studenti “votano con i piedi”: se un docente vale poco lo sanno, e vanno a iscriversi dove c’è il docente migliore.

La percezione di un esterno come me, per quanto attiene alla qualità, è che il sistema sia “a macchie di leopardo”, come dappertutto. Del resto non è possibile pensare a una istruzione musicale superiore praticata allo stesso livello in 82 istituzioni (54 Conservatori, 4 sedi staccate, 20 ex IMP, 4 istituzioni private – peraltro di ottimo livello). Se poi ci riferiamo alle relazioni, ho trovato in genere un’attitudine piuttosto individualista e una certa difficoltà a costruire rapporti di rete. Per fare qualche esempio: possono esistere nella stessa regione molti corsi paralleli di uno strumento, magari ciascuno con pochissimi studenti, ma è molto difficile che le istituzioni si coordinino per concentrare nell’una il corso dello strumento A e nell’altra il corso dello strumento B. Una mentalità burocratica di difesa a oltranza dell’esistente è dannosa dappertutto, ma controproducente nell’istruzione artistica: impedisce di valorizzare le eccellenze.

E’ questo, ovviamente, un discorso difficile: si tratta di mettere al centro la qualità del servizio, e facilmente uno che dice queste cose come Anvur si espone all’accusa di voler assassinare i docenti. Non ho argomenti: si tratta di vedere se la scuola sia un servizio ai docenti o un servizio agli studenti.

Vediamo allora di chiarire il quadro normativo in cui Anvur si muove rispetto al comparto Afam.

In questo momento c’è un vuoto normativo: come è noto manca il Regolamento sul reclutamento, sugli standard e sulla valutazione,mentre nel decreto istitutivo dell’Anvur ad essa è delegata la valutazione delle istituzioni di istruzione di terzo livello, e quindi anche dell’Afam. Non esistono quindi ancora i criteri per la valutazione delle istituzioni Afam, contrariamente a quanto avviene per l’Università. Nell’Afam non è ancora messa a norma la valutazione esterna delle istituzioni, che possa influire anche sulla distribuzione dei finanziamenti statali. Quello che invece c’è è che Anvur deve fornire i criteri per la valutazione interna, cioè per i nuclei di valutazione: ed è quello che abbiamo fatto con il gruppo di lavoro l’anno scorso.

In secondo luogo l’art. 11 del decreto 212 assegna ad Anvur (come erede di CNVSU) il compito di valutare i corsi delle istituzioni private che chiedono l’accreditamento, sotto il profilo dell’adeguatezza della docenza e di quella delle strutture. Qui l’assenza di criteri che non siano di pura analogia con l’università è cruciale, e genera spesso un contenzioso amministrativo. Il problema sta quindi tutto nel “regolamento che manca”, che dovrà prevedere gli standard e i requisiti per la docenza, e poi la valutazione, ai fini dell’accreditamento. Come è accaduto per l’università: si valutano ai fini dell’accreditamento i nuovi corsi che si aprono, e nel giro di un periodo (5 anni) si valuteranno quelli già attivati in precedenza.

Contrariamente alle università, la procedura di accreditamento iniziale per le istituzioni Afam  è compito del Ministero, non di Anvur. Almeno per ora: ma dovrebbe avere innanzitutto i criteri e gli standard, fissati nel Regolamento, e poi il personale per farlo.

Tutto questo suggerisce buoni motivi per cui questo Regolamento fatica tanto a vedere la luce....

Dovrà uscire, anche se i 14 passati dalla 508 anni fanno pensare a un “mai”. Certo è “sul tavolo”, come si dice, ma lo è da molto tempo. Adesso però mi pare che ci sia la volontà politica. Anche la riorganizzazione del Ministero che è in corso potrebbe favorirne la nascita, nonostante abbia creato un vuoto di competenze intorno all’Afam che andrà colmato. Resta il fatto, ed è facile intuirlo, che il settore potrebbe avere buona visibilità: se si invertisse la cattiva stampa che purtroppo c’è stata intorno ai Conservatori e si generasse il consenso di nomi illustri. Questo sarebbe molto visibile e potrebbe essere un incentivo per l’iniziativa governativa.

Che idea si è fatta della questione della fascia pre-accademica, che è esclusiva dei Conservatori?

Come sa ci sono due posizioni divaricate, quella di chi vuole continuare a fare come si è sempre fatto, e quella di chi vuole che i Conservatori si occupino esclusivamente della fascia accademica, salvo talenti eccezionali. Io trovo interessante una terza posizione, che non è una via di mezzo. Parte dalla constatazione che può esserci uno slittamento fra l’età anagrafica e la competenza musicale – non esiste un chirurgo quindicenne, ma può esistere un concertista di quell’età – per ipotizzare di lasciare alla scuola la formazione musicale generale, magari potenziando il liceo musicale, e al Conservatorio la formazione delle eccellenze, svincolandola dai livelli accademici. Questo discorso però riconduce al tasto dolente già toccato prima: anche questa ipotesi di alta formazione non può pensarsi “spalmata” su 82 istituzioni. Anche qui bisogna scegliere se il servizio erogato è a favore di chi insegna o di chi impara. Del resto all’estero è dovunque così: l’alta formazione è concentrata in un numero ristretto di istituzioni. Se sarà così anche da noi, le altre istituzioni o faranno solo il triennio, o faranno tutta la formazione specialistica per chi poi andrà nelle istituzioni superiori, o anche per chi non ci andrà perché non è interessato a una formazione accademica.

Naturalmente non ho idea di quale sarà l’esito di questa vicenda, mi sembra importante che se ne sia cominciato a parlare. La legge dice che i Conservatori sono sede dell’alta formazione musicale: chiediamoci dunque innanzitutto cosa sia. Le soluzioni organizzative verranno di conseguenza a quelle concettuali. Certo se ci fossero poche istituzioni “superiori”, le altre scuole di musica avrebbero “diritto” ad essere 70, ma anche molte di più, una volta chiariti i compiti. Questo aprirebbe una prospettiva di sviluppo anche per l’occupazione dei diplomati.

Beninteso, queste sono solo ipotesi. Quello che mi sento di dire è che oggi il sistema è un coarcervo molto eterogeneo, e dev’essere il sistema stesso – con un aiuto dall’esterno se lo riterrà opportuno – a ridefinire l’istruzione musicale superiore. Purtroppo ho l’impressione che un certo tipo di sindacalismo di vecchio stampo che ancora abita l’Afam non sarà di aiuto a questo processo. E resto dell’idea che un docente di Conservatorio, specie di strumento, debba essere veramente un professionista della sua specialità.

Con la conclusione del Gruppo di lavoro è finito il rapporto di Anvur con Afam?

Mi auguro di no. Il gruppo si è chiuso perché ha fatto il suo lavoro. Adesso intanto il frutto del lavoro (le schede) passa al Cineca, in modo che la maschera dedicata possa ricevere le informazioni sui corsi Afam secondo i criteri che sono stati elaborati dal Gruppo. Inoltre stiamo progettando per novembre ‘14 un convegno sulle prospettive dell’Afam, da farsi insieme con il Ministero. Vorremmo che venisse qualcuno a raccontarci come fanno in altri Paesi. Può darsi che la relazione introduttiva sia di Salvatore Veca. Anche sul tema del reclutamento vorremmo un confronto europeo, penso a qualcuno dell’AEC. Ovviamente in questo caso i discussant saranno italiani. La ricerca e il suo rapporto con la produzione artistica potrebbero essere un altro tema: in campo artistico ricerca equivale a produzione? Cos’è un dottorato in musica (e non solo in musicologia)? Questi potrebbero essere alcuni dei temi del convegno.

 aprile 2014

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