EAR
TRAINING E ALTA FORMAZIONE
di
Alberto Odone
L’avvio ufficiale dei Corsi Accademici A.F.A.M. con il
prossimo novembre metterà molti Conservatori di fronte all’urgenza di dare
contenuto alle due parole inglesi “Ear Training”, divenute forse anche un po’ di
moda, che possono costituire l’occasione per un timido possibile avvicinamento
della nostra proposta formativa alla media degli standard europei. Ma in
riferimento alle quali non esiste allo stato attuale alcuna agenzia formativa
rivolta ai docenti della materia (come accade, almeno sotto il profilo
metodologico, per tutto il settore che potremmo identificare con l’aggettivo
“teorico”).
La stessa collocazione della formazione auditiva nella
struttura dei Trienni ha suscitato non poche discussioni e incomprensioni.
Il contenitore “Teoria, ritmica e percezione musicale” è un
piccolo caso emblematico nella vicenda della nostra riforma. Tutti i settori
disciplinari hanno mantenuto la loro titolatura vetero ordinamentale. Può
sembrare ovvio che “Arpa” “Pianoforte” o “Composizione” siano rimasti tali ma lo
è solo in parte. Infatti tale continuità significa che si continuerà a entrare
nei Conservatori italiani per studiare genericamente uno strumento o una
disciplina, senza riguardo, salvo poche eccezioni, ad alcun concreto profilo
professionale. La considerazione di tale profilo prevederebbe non già lo studio
del generico strumento ma di una sua declinazione o quantomeno, volendo
riconoscere al Triennio Accademico una sufficiente apertura o propedeuticità
rispetto a scelte professionali maggiormente determinate, tipiche della
successiva specializzazione biennale, una pluralità di declinazioni
professionali: strumento per che cosa? Per l’accompagnamento, il solismo, la
musica da camera, la didattica strumentale, quella generale, per la
correpetizione, la danza...?
Dietro a questa genericità, a voler ben vedere, la
continuità con il passato lascia piuttosto trasparire una specificità non
dichiarata, quella dello strumentista ottocentesco che conferma l’esecuzione
virtuosistica solistica mnemonica come suo unico obiettivo. Mancando di
realistica efficacia occupazionale, data la situazione di un mercato del lavoro
musicale che conosciamo, il risultato di non difficile previsione è quello di
una preparazione all’eccellenza dilettantistica o, se accettiamo l’eufemismo, a
un professionismo musicale “diversamente occupato”.
Tornando al settore disciplinare che ci interessa da
vicino, Teoria, ritmica e percezione musicale, esso è fra i pochi ad
avere una nuova titolazione (non considerando, ovviamente, i settori di nuova
introduzione, non presenti nel precedente ordinamento). È probabile che il
vecchio “Teoria, Solfeggio e Dettato Musicale” sia sembrato al legislatore
troppo fortemente retrò, o forse non adatto all’accademicità del contesto. In
realtà il parallelismo è evidente, quasi comico, molto istruttivo riguardo al
pensiero pedagogico musicale che lo sorregge.
La Teoria è la Teoria
e non c’è bisogno di specificare nulla. In nessun altro settore appare
l’espressione “Teoria della Musica”. Essa appare qui, in modo non autonomo,
infilata nel capitolo che raduna gli “attrezzi” necessari al musicista, sempre
chiaramente avvicinato all’altro termine, che ne ha rappresentato fino ad oggi
la natura effettiva: “Semiografia della Musica”.
Quanto al termine “Solfeggio”, esso scompare, rimpiazzato
in modo significativo da quello che, anche in questo caso, ne è stato l’invasivo
alter ego fino ai nostri giorni: Ritmica. Difficile evitare l’impressione
secondo la quale ogni tentativo di aprire la considerazione delle abilità non
direttamente strumentali in dotazione al musicista nel senso, a lungo auspicato,
di un’attenzione al pensiero musicale, al possesso delle strutture della musica,
alla competenza musicale che dovrebbe costituire lo spessore, la qualità, la
differenza nelle abilità dello strumentista (saper cantare, sentire, riprodurre,
variare, capire ciò che si fa con lo strumento) sia da rimandare ad una prossima
riforma.
Giunge infine ciò che più ci sta a cuore, la Percezione
musicale. Da qui dovrebbe ripartire la considerazione rinnovata degli studi
musicali, non per aggiungere una materia di studio in più o per affermarne una
sterile centralità, ma per ripensare lo stesso approccio allo strumento e
all’intera pratica della musica. È mia ferma convinzione che le migliori
applicazioni metodologiche dell’ear training restino lettera morta, finchè
l’approccio allo strumento si ostinerà a emarginare risolutamente il
coinvolgimento organico dell’orecchio nell’esecuzione (ad esempio nella pratica
diffusa dell’accompagnamento, dell’improvvisazione, dell’estemporaneità in
genere).
Resta semmai da commentare la terminologia prescelta,
essendo quantomeno discutibile, anche per i più ottimisti sostenitori del “New
Look”, che la percezione possa essere direttamente oggetto di formazione o non
si debba piuttosto agire sugli schemi cognitivi superiori che presiedono
all’elaborazione della stessa.
In realtà proprio in questo richiamo alla percezione
potrebbe stare uno tra gli elementi di maggiore stacco dell’attuale riforma
rispetto all’onnipresente tradizione ottocentesca che ha imposto la centralità
quasi esclusiva – per quanto riguarda il “logos” teorico effettivo, al di là del
dubbio posticino riconosciuto alla teoria della musica – dell’idealistica storia
e della romantica armonia.
Dunque, per chi vuole, ecco finalmente l’Ear Training nel
Triennio Accademico: come in Spagna, come negli Stati Uniti, come – ma lassù con
ben altro radicamento – nei paesi nordici. Subito nasce però l’obiezione (che
non è di fantasia): “ma come, ancora, a vent’anni, devono fare solfeggio?”
Oppure, più nobilmente: “ma una volta sviluppata – precedentemente – la capacità
auditiva, che bisogno c’è di lavorare sull’ascolto anche in questa fase?”
È dunque utile pensare a quale audizione potremmo riferirci
progettando una proposta corsuale adatta a questa fase degli studi.
Esiste quella che potremmo chiamare una “Audizione
Fondamentale”. Essa, come altre abilità umane fondamentali, può essere
sviluppata e migliorata lungo l’arco di tutta la vita. Tuttavia, è vero, essa è
caratterizzata da una finestra formativa di ampiezza abbastanza definita. Alcuni
studiosi collocano attorno agli 8-9 anni di età la fine del periodo d’oro per lo
sviluppo dell’audizione fondamentale nella vita dell’individuo. Ciò che non si
sviluppa entro quell’età è recuperabile in seguito solo molto parzialmente,
faticosamente, un po’ come una lingua appresa in età adulta raffrontata alla
propria lingua madre.
Dunque, è vero, il nucleo della questione si sposta in una
fase precedente a quella in oggetto, richiamando l’importanza mai
sufficientemente affermata della formazione sistematica di base e della sua
avveduta qualità.
Ma di cosa parliamo utilizzando il termine “Audizione”?
Parliamo ovviamente di qualcosa di più della percezione sensoriale elaborata su
base semplicemente istintiva; né ci riferiamo per forza, d’altra parte, ad
un’elaborazione cognitivamente complessa e consapevole. “Audire” (si veda il
neologismo “Audiation” nella terminologia di Edwin Gordon) è udire in modo
trasparente, con la possibilità di interagire con il dato sonoro; è la
possibilità di percepire interiormente o richiamare dalla memoria il suono anche
non attualmente presente e di utilizzarlo nei più diversi modi: per capire o
controllare la produzione sonora in atto, per sintonizzarsi con i suoni musicali
circostanti, per immaginare il seguito di un’improvvisazione, per dare
significato al segno grafico nella lettura cantata, per scrivere ciò che
musicalmente si pensa o si ascolta ecc.
Questi e altri sono gli obiettivi di una pedagogia musicale
che metta al centro – e non potrebbe essere diversamente - l’aspetto percettivo
del fare musica. Questi sono gli obiettivi con cui la didattica soprattutto
strumentale dovrebbe confrontarsi radicalmente nel riprogettare le sue pratiche.
Tutto ciò deve collocarsi nella fase più precoce possibile della formazione.
Cosa resta dunque alla formazione accademica? La non
volontarietà o consapevolezza di molte delle operazioni a cui si è fatto cenno
fa sì che lo sviluppo dell’audizione possa trovare grande spazio in fasi della
vita caratterizzate da uno sviluppo cognitivo ancora non giunto a maturazione;
ciò non toglie, tuttavia, che l’audizione fondamentale chieda o almeno consenta,
in stagioni via via successive della vita, tra cui quella di cui trattiamo, di
essere elaborata cognitivamente. La percezione interiore, l’aggancio del suono
interiormente presente con lo strumento linguistico (le sillabe del solfeggio)
sono conquiste che possono confluire in un processo consapevole di comprensione
delle strutture dei linguaggi sonori presenti nel nostro ambiente e nella nostra
pratica musicale.
Ecco allora ciò che l’Ear Training accademico può fare:
riconsiderare il progetto del Traité schaefferiano di un nuovo solfeggio
universale per riconoscere e chiamare per nome non più solo altezze e ritmi ma
oggetti sonori, strutture complesse e ancor più per rendere consapevoli – per
quanto l’avanzamento della scienza musicologica ci consente – i dinamismi che
pongono i suoni in relazione tra loro e col nostro essere, e i significati che
questa interazione produce.
La pretesa non è quella di una Mathesis Universalis
del linguaggio musicale. La partenza sarà regionale, stilisticamente
determinata, ma con la tensione verso il reperimento delle costanti che i
sistemi di suoni possono presentare, sulla base di sistemi simbolici
esistenziali comuni, e nel rispetto delle differenze di significato che
strutture uguali possono rivestire in contesti diversi.
Stabilire il profilo percettivo come chiave di lettura di
questo progetto corrisponde a mettere la temporalità musicale in primo piano.
L’analisi auditiva non è un’analisi in assenza forzata di strumenti più efficaci
(quelli della notazione). È piuttosto il reimmergere il dato sonoro nel brodo
primordiale della temporalità, dove i fenomeni musicali si colgono nel loro
aspetto più genuino, quello del prima e del dopo, della tensione direzionale o
dell’estasi, della centralità della memoria e dell’attenzione.
Questo ascolto che vede,
che comprende le connessioni, questo recupero dell’aspetto teorico non disgiunto
dal carattere “live” della performance può finalmente risultare non più
contrapposto alla pratica, in un dualismo scontato quanto nocivo per la
formazione musicale, persino nella sua istanza più direttamente
professionalizzante. Un ascolto teoricamente avveduto va nella direzione
dell’acquisizione di competenze musicali, abilità di secondo livello, abilità
cognitivamente consapevoli e quindi spendibili in contesti diversi. È di questa
profondità di acquisizione ed elasticità di applicazione che il futuro anche
professionale di chi fa musica sente il bisogno.
settembre
2010
Alberto Odone, insieme
con Björn Roslund, Malmö Academy of Music, Svezia, propone
un
Workshop di metodologia dell'ear training rivolto a
docenti di Conservatori e scuole di musica, e a studenti di Didattica della
musica. |