Cosa bolle in pentola
Conversazione a tutto campo con Paolo
Troncon, neo-eletto presidente della Conferenza dei direttori
di Sergio Lattes
Paolo Troncon,
compositore e pianista trevigiano, è stato direttore del Conservatorio di
Vicenza dal 2004 al 2010 ed è direttore del Conservatorio di Castelfranco Veneto
dal 2010. Già presidente del Consorzio dei Conservatori del Veneto dal 2009 al
2013 e membro del direttivo della Conferenza dei direttori, è stato recentemente
eletto presidente della Conferenza dei direttori dei Conservatori di Musica per
il triennio 2013-16.
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Sommario: cosa bolle in pentola per il 2014 –
la riforma del Miur – la
riforma dei Conservatori: ricerca, valutazione, reclutamento –
la missione del conservatorio: quali studenti – i
pre-accademici, il liceo musicale, gli allievi minorenni –
chi fa la formazione iniziale –
i livelli di entrata e di uscita –
numero e ruolo dei Conservatori – polemiche di stampa
– il ruolo della Conferenza dei direttori –
l’ingresso di istituzioni private in Afam –
cosa fa ANVUR nel nostro settore – un
bilancio complessivo.
Come presidente neo-eletto della Conferenza dei
direttori dei Conservatori, come vedi il futuro prossimo?
In pentola bollono molte cose. Il 2014, se come speriamo
verrà presto costituito il nuovo CNAM, potrebbe essere l’anno del completamento
della riforma. Ci auguriamo arrivi l’ordinamento dei bienni (visto che la legge
di stabilità 2012 indicava come termine ultimo di emanazione il 31 dicembre
2013!) e l’ultimo, e tanto atteso, regolamento previsto dalla legge 508, quello
sulla programmazione del sistema e sul reclutamento dei docenti (che la legge
128 del 13 novembre 2013 indica venga emanato entro il 6 maggio 2014).
Queste due cose sono poi strettamente correlate all’avvio
del processo di “razionalizzazione” del sistema di cui si parla da tempo e che
non sappiamo ancora se avverrà con lo scopo di risparmiare o di rilanciare.
Perché si può essere disposti anche a fare qualche sacrificio, ma solo se questo
può servire veramente a valorizzare il sistema per renderlo veramente di alta
formazione e più competitivo a livello europeo.
Sappiamo poi che dal nuovo
anno ci sarà la riorganizzazione dell’attuale Dipartimento
per
l’università, l’alta formazione artistica, musicale e coreutica e per la ricerca
nel nuovo Dipartimento
per la formazione
superiore e per la ricerca.
Tale riassetto causerà l’eliminazione dell’attuale direzione generale AFAM, con
conseguente spargimento delle competenze che ci riguardano su più direzioni
generali e uffici ministeriali.
Cambieranno insomma gli uomini che, nel bene e nel male,
hanno fatto la storia di questi ultimi dieci anni. Ed entrerà in gioco l’ANVUR
(Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca), che
potrebbe traghettare finalmente il sistema AFAM, ancora ibrido dopo quattordici
anni di riforma, nel terzo livello della formazione, quello cioè superiore.
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Cominciamo allora dal MIUR.
Come detto l’AFAM sarà gestita dal nuovo Dipartimento per
la formazione superiore e la ricerca, che sarà articolato su tre direzioni
generali:
a)
direzione generale per la
programmazione, il coordinamento e il finanziamento delle istituzioni della
formazione superiore;
b) direzione generale per lo studente, lo sviluppo e
l’internazionalizzazione della formazione superiore;
c)
direzione generale per il
coordinamento, la promozione e la valorizzazione della ricerca.
Si passa così da un’articolazione verticale delle
competenze (AFAM da una parte, università dall’altra), ad una orizzontale.
Dovremo quindi interloquire con tutte e tre le direzioni, in funzione del tema
che dovremo affrontare. Con un rischio: che mancando una figura di sintesi (più
che opportuna visto che per intervenire nel nostro settore bisogna conoscerlo
bene), si possano creare ulteriori difficoltà e dispersioni.
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E parlando più in generale...
Mi pare che i nodi stiano venendo al pettine. Il
reclutamento del personale (tutto) è il cardine del sistema e deve essere
urgentemente riformato, perché quello attuale, ancorato al modello della scuola
secondaria, è uno dei fattori - a mio parere - che ha impedito alle istituzioni
AFAM italiane di entrare a pieno titolo e riconoscimento nel novero delle
istituzioni di alta formazione europee, rimanendo a metà strada tra scuola
secondaria e università. La 508 ha trasformato nel giorno del solstizio
d’inverno 1999 il vecchio e glorioso Conservatorio in “AFAM”, ma parafrasando
D’Azeglio, fatto l’AFAM, bisognava occuparsi di fare i Conservatori riformati!
Sono invece passati quattordici anni senza vedere un vero e nuovo modo di
pensare le cose.
Gli indicatori fondamentali che rendono le istituzioni
appartenenti giuridicamente al terzo livello della formazione veramente tali,
per i Conservatori rimangono purtroppo deboli. Parlo della ricerca che non c’è
(la recente legge 128/2013 prevede tre milioni di euro per imprecisati “premi”,
ma zero euro per la ricerca nell’AFAM); parlo della valutazione, interna ed
esterna, che è ancora allo stato primordiale o non esiste affatto.
Il nostro settore ha caratteristiche specifiche diverse
rispetto all’università: l’insegnamento musicale conserva alcune qualità della
bottega rinascimentale, il rapporto diretto – non soltanto verbale – fra
“maestro” e allievo che si basa anche sull’apprendimento per imitazione. Sono
specificità che vanno preservate perché sono differenze qualificanti. Ma il
disallineamento, per noi svantaggioso, con l’università e con quanto avviene a
livello europeo sta altrove: nel modo in cui viene selezionata la docenza nei
conservatori. Sussistono ancora criteri basati su meri automatismi sia nella
valutazione oggettiva dei mesi di servizio e della quantità di titoli di studio,
sia in quella soggettiva, cioè sulle valutazioni dei titoli artistici ottenute
costringendo le commissioni a sommare col pallottoliere punteggi in base a
preordinate categorie di titoli. In questo modo è difficile per i conservatori
garantire sempre la qualità dell’offerta formativa desiderata e impossibile
applicare il grande e vero elemento di novità della riforma: l’autonomia.
Qual è
l’alternativa?
L’alternativa è già scritta nella bozza di regolamento. È
prevista un’idoneità nazionale, e poi le singole istituzioni sceglieranno con
propri concorsi i candidati idonei, in base ai profili richiesti, valutando i
curricoli e facendo eventualmente audizioni (come avviene nei migliori istituti
esteri). Audizioni che possono essere prove di esecuzione e/o di lezione di
fronte a studenti.
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Ci sono altre questioni aperte: i corsi
pre-accademici, il rapporto con il liceo musicale...
Il liceo musicale e il conservatorio sono due cose diverse
e tali devono restare. Il liceo rappresenta un’esperienza molto bella, ma non è
una scuola pensata per essere musicalmente professionalizzante (altrimenti non
sarebbe un “liceo”) e quindi non sarà mai comparabile ad un conservatorio. La
musica è parte integrante della cultura di una persona, e chi esce dal liceo
musicale può darsi che faccia il musicista, ma può egualmente succedere che
faccia il commercialista o il medico. E studiando musica sono certo che
diventerà un commercialista migliore, o un medico migliore.
Però per risponderti si deve partire dalla domanda
capitale, che ancora non ci siamo posti correttamente: chi è lo studente
del conservatorio dopo la riforma, ovvero qual è il compito del conservatorio
riformato? Comincerei col dire quale non è: al conservatorio riformato non si va
a fare l’avviamento agli studi musicali, perché ci sono molti altri soggetti
pubblici e privati preposti a questo: le scuole di musica, la scuola elementare
(DM 8/2011), la media a indirizzo, il liceo musicale. Il conservatorio non fa
neppure didattica amatoriale, perché non ha più la missione di rispondere a un
bisogno generale di educazione musicale. Lo studente di conservatorio è in primo
luogo quello che ha doti e voglia di fare la professione musicale. E che quindi
ha bisogno di un ambiente di studio particolare e qualificato, nonché
attrezzato. Per questo i conservatori vanno rinforzati e valorizzati. Perché
solo dai conservatori usciranno i professionisti di domani e perdere questa
tradizione sarebbe per l’Italia una grave sconfitta.
Spesso ci si domanda se gli studenti del nuovo
conservatorio devono essere solo maggiorenni o anche minorenni. La domanda è mal
posta.
La normativa permette già di considerare una parte dei
minorenni come facenti parte dell’alta formazione (e già questo ci differenzia
dai modelli tipici dell’università): parlo dei “talenti precoci”. Si tratta però
di pochi studenti di livello molto avanzato, sul piano tecnico e interpretativo.
Questi studenti non sono certo di fascia pre-accademica, possono iscriversi ad
un triennio (non però ad un biennio), ma non possono diplomarsi prima della
“maturità”. Non è stato però risolto ancora come trattare questi studenti che
hanno anche seri problemi di doppia frequenza con la scuola secondaria, oltre
che possibili problemi di comprensione di certi corsi teorici. Io ritengo che
andrebbero messi in un anno “zero” di durata variabile, da definire tramite
regolamento interno.
Rimangono poi due altre categorie di minorenni. Quella
degli studenti che hanno deciso di proseguire gli studi in un triennio, ma
hanno alcune lacune da colmare, studenti che quindi hanno motivazione, capacità
musicale e tempo a disposizione. Possono a mio parere entrare nei corsi
“propedeutici”, previsti dal DPR 212/2005, corsi che all’estero spesso si
trovano in dipartimenti interni ai conservatori di alta formazione (“Junior
Department”). Ritengo che questa fascia di studenti possa essere considerata a
pieno titolo appartenente alla tipologia del conservatorio riformato. Alla
tipologia “propedeutica” possono appartenere chiaramente anche studenti
maggiorenni.
Più problematico invece risulta includere nel conservatorio
riformato studenti (minorenni o maggiorenni) che non hanno le caratteristiche di
cui sopra. Si potrebbe però risolvere la cosa accettando nei conservatori anche
questi studenti, ma pagando i docenti con risorse proprie del conservatorio
(contributi degli studenti e/o risorse esterne).
Per quanto riguarda la definizione di studente accademico
bisogna estendere il concetto e non limitarci a pensare solo agli iscritti ai
corsi di studio triennali, biennali, di specializzazione e, speriamo presto, ai
corsi di formazione alla ricerca.
Intanto fino a che il vecchio ordinamento non andrà a
completo esaurimento (altri sette/otto anni!) gli iscritti ai corsi del vecchio
periodo superiore rientrano pienamente nella tipologia di studenti di
conservatorio riformato. Poi i conservatori possono ampliare la loro offerta
formativa, per esempio attivando master di primo o di secondo livello
organizzati anche in maniera consortile con più istituzioni. Ci sono corsi che
non danno alcun titolo di studio, ma che sono pienamente rientranti nella
tipologia del Conservatorio riformato. Parlo qui dei corsi di “alta formazione”,
in uso anche nell’università, che possono dare crediti formativi.
Ma ci sono anche corsi specialistici che nonostante non
rientrino in nessuna tipologia, hanno tutte le caratteristiche di essere corsi
“superiori”. Parlo qui di quella tipologia di offerta formativa pensata per chi
non ha interesse a conseguire un titolo di studio (per vari motivi, o perché non
è interessato ad usarlo, oppure per età), ma che ha tutti i crismi di essere una
formazione superiore e specialistica. Corsi, per esempio, per strumenti musicali
appartenenti all’offerta del conservatorio, frequentati da diplomati in altro
strumento – già musicalmente formati quindi - oppure per strumenti non
rientranti tra quelli previsti dalla normativa (per esempio di diversa
tradizione extraeuropea), sempre frequentati da musicisti professionisti. E
anche nell’ambito non esecutivo ci possono essere varie possibilità.
Insomma stabilendo lo status dello studente del
conservatorio riformato, io credo che si possa costruire attorno a lui
un’offerta formativa molto ampia che può interessare una fascia molto ampia di
utenza, permettendo al sistema attuale di mantenersi (non solo sopravvivere) e
di evolversi.
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Mi sembra di capire quindi che il
conservatorio non dovrebbe occuparsi di tutto il percorso, fin dall’inizio degli
studi.
Mi rendo conto che vedendo la cosa solo dal punto di vista
occupazionale potrebbe manifestarsi una prospettiva preoccupante. Difficile però
fare una previsione esatta, in termini di eventuale perdita di posti di lavoro,
perché le variabili sono molte. Certamente però non c’è solo il problema del
mantenimento del numero di posti di lavoro, ma anche del mantenimento e del
miglioramento della qualità del posto di lavoro. Voglio dire che c’è il
rischio di un “declassamento” del posto causato da politiche volte
esclusivamente al caparbio mantenimento dello status quo. Ogni
cambiamento produce conseguenze su entrambi i piani, ed entrambi devono essere
sempre tenuti in conto. Ma il problema si risolve solo avendo una visione
globale e una prospettiva che si raggiunge non tanto cercando di risolvere un
problema alla volta, ma tenendo sempre a mente gli obiettivi principali da
raggiungere.
Premesso questo, la formazione iniziale, l’avviamento alla
musica, può essere svolta all’esterno, meglio se in regime di convenzione, o in
conservatorio ma senza costi per lo stato. Nella seconda di queste ipotesi c’è
da considerare un impatto negativo sui posti di lavoro esterni, quelli che
potrebbero essere sottratti ai nostri stessi diplomati che oggi trovano lavoro
purtroppo per lo più solo nelle scuole di musica che spesso loro stessi fondano.
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Come vedi il tema della disomogeneità dei livelli di
entrata nei conservatori, dico i livelli di competenza tecnico-strumentistica?
Non credo che il vero problema sia quello di stabilire tra
i vari Conservatori livelli omogenei di competenza in entrata ai corsi di studio
del triennio. Ciascuno studente può avere tempi diversi di apprendimento, e
sbarrare preventivamente l’accesso a candidati che potrebbero recuperare in
tempi variabili eventuali loro lacune potrebbe essere controproducente. Quello
che conta invece è stabilire un livello omogeneo minimo di competenza per
l’uscita dai corsi di studio. Finché il valore legale del titolo persisterà
nel nostro paese è importante che due diplomi giuridicamente equivalenti
rilasciati da due diversi conservatori abbiano livelli equivalenti!
Non dimentichiamo poi che anche il vecchio ordinamento
definiva solo livelli di uscita, con la differenza che li descriveva in termini
di specifici repertori obbligatori definiti per legge (quindi uguali per tutti),
nei vari periodi del ciclo formativo (inferiore, medio, superiore). Ora questo
sistema risulta superato, ma non per questo il discorso dell’uniformazione dei
livelli di uscita deve essere accantonato.
È uno dei problemi da risolvere: ovviamente non
reintroducendo repertori obbligati per legge – perché sarebbe in contraddizione
con l’autonomia – ma definendo degli standard. Negli USA, per fare un esempio,
c’è grande familiarità con il metodo degli standard, che però lì sono definiti
dalle associazioni private tra scuole di musica. Lo standard nel sistema delle
autonomie (e in Italia ne siamo lontani) non rappresenta un obbligo:
un’istituzione può scegliere di non adottarlo, assumendosi però la
responsabilità delle conseguenze in termini di reputazione. Questo porterebbe a
una differenziazione qualitativa delle istituzioni, e in parte è già così nei
fatti: basti pensare al diverso “valore” di una stessa laurea conseguita in
università diverse.
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Qui ci avviciniamo al tema della valutazione. Ma tocchiamo
ancora per un momento lo spinoso problema del numero dei conservatori. La
polemica su questo argomento è tornata sulla stampa in questi ultimi giorni.
Nel futuro, a mio parere, c’è spazio per tutti, a
condizione che si definiscano bene i ruoli dei conservatori. L’attuale
distribuzione delle sedi risale a logiche di 40/50 anni fa: ma l’equivalenza dei
ruoli fa sì che tutti i 74 Conservatori di alta formazione statali e non statali
abbiano oggi la stessa funzione. Questo non ha eguali in Europa.
La soluzione al problema spetta al Ministro, non ovviamente
alla Conferenza dei direttori. Ma nel cercare la soluzione va tenuto conto che è
necessario mantenere un sistema di formazione musicale professionalizzante
diffuso su tutto il territorio. 74 sedi possono essere anche poche: in Francia i
conservatori sono più di cento!
Però non fanno tutti la stessa cosa. In generale, in Europa
col termine “conservatorio” s’intende spesso una scuola di musica professionale
che prepara la prima parte del curricolo musicale. Le accademie musicali, le
Hochschulen, i conservatori superiori sono di numero più limitato, per via di
un’organizzazione nazionale che privilegia la concentrazione della formazione
d’eccellenza su sedi specifiche. In una prospettiva del genere le sedi
potrebbero anche aumentare. Se invece si pensa che tutti i conservatori
debbano continuare a fare tutti le stesse cose, che cioè possano esserci 74
bienni su tutti gli strumenti in tutti i Conservatori (e c’è anche da chiedersi:
ci saranno gli studenti? ci saranno le risorse?), in questo caso il sistema è a
rischio, e il rischio è quello della scure, cioè dell’accorpamento forzoso delle
istituzioni.
In
questa faccenda, oltre ai sentimenti di campanile, farà però da freno il timore
che i docenti possano risultare troppi.
Gli studenti di triennio e di biennio, più quelli dei corsi
superiori del vecchio ordinamento, costituiscono attualmente circa il 40% della
popolazione. Quindi il 60% degli studenti dei Conservatori potrebbe essere
definita come non facente parte propriamente della fascia accademica, e quindi
del conservatorio riformato. Bisogna chiedersi quindi a chi dovranno
insegnare i futuri docenti di Conservatorio.
Penso però che nella prospettiva che ho delineato prima,
comprendendo quindi la fascia “alta” del pre-accademico (meglio chiamata
“propedeutica”), i corsi specialistici non-accademici, i master, e il dottorato
quando ci sarà, il numero di studenti possa aumentare considerevolmente.
Comunque, ripeto: se la situazione attuale in prospettiva
non cambierà, se rimarrà lo status quo senza un’idea di sviluppo delle
cose, l’organizzazione nazionale delle sedi dei Conservatori potrebbe diventare
insostenibile. E noi vogliamo evitare di perdere istituzioni che fungono da
veri, e talvolta unici, presidi culturali sul loro territorio.
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Sulla stampa si è polemizzato anche sul numero di
studenti per classe, nei conservatori.
Questo perché il famoso giornalista del Corriere della Sera
ignorava che le lezioni nei conservatori sono per lo più individuali! Facciamo
due conti. Nel liceo musicale della riforma “Gelmini”, che è liceo e non
conservatorio, sono previste per legge due ore di primo strumento per 33
settimane all’anno, per cinque anni: fanno 66 ore di lezione a studente, per
anno. Un docente di strumento del liceo può avere quindi al massimo nove
studenti nelle cinque classi. Meno di due studenti per classe: ma nessuno ha
scritto articoli di protesta per questo. Se nei conservatori usassimo questi
numeri, un docente dello stesso strumento dovrebbe avere non più di cinque
studenti, mentre adesso ne ha invece di più. Mi sembra una polemica strumentale
e sbagliata. Anche all’estero nelle istituzioni superiori il rapporto
docente/allievi è basso, e ogni paragone con l’università è ridicolo.
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Parliamo ora per un momento della Conferenza dei
direttori. La sensazione è che il CNAM, che è organo previsto dalla 508, sia in
parte fallito, e si possa anche andare avanti senza. Di fatto è vacante da molto
tempo. Mentre la Conferenza dei direttori – e poi è venuta quella dei
presidenti, e poi quella degli studenti – pur non essendo prevista dalla legge
di riforma, ha un peso crescente nella gestione del sistema.
In parte è vero. In assenza di altri interlocutori la
Conferenza rappresenta oggi un punto fermo. I conservatori non possono fare a
meno dei direttori e forse, spero, il sistema non può fare a meno della
Conferenza! La Conferenza non è un organo previsto dalla legge 508, ma è stata
normata con decreto ministeriale (n. 13 del 28 gennaio 2013). Era stata
istituita, prima della riforma (estate 1999), con un decreto dell’allora capo
dell’Ispettorato Istruzione artistica Scala. La Conferenza non ha mai
interferito con le prerogative del CNAM, e anzi sotto la presidenza Furlanis c’è
stata una buona collaborazione. Ritengo ragionevole pensare che un organo
costituito da 74 direttori, che gestiscono ogni giorno i loro istituti, possa
dare al sistema un contributo utile. Non vedo ragioni di competizione con il
CNAM. Del resto è così anche all’università dove c’è il CUN e la CRUI (la
conferenza dei rettori), anche se quest’ultimo è un soggetto giuridicamente
privato.
Penso che la questione di sostanza per la Conferenza dei
direttori sia quella di assumere maggiore autorevolezza. Se la Conferenza dei
direttori riuscirà ad esprimere punti di vista e documenti autorevoli, questo
fatto conterà molto più del valore giuridico attribuito all’organismo. E
l’autorevolezza non si conquista per decreto. Perciò penso che sarà bene che la
Conferenza lavori come un organo tecnico, formando da commissioni di studio,
producendo documenti che siano il frutto di elaborazione approfondite.
La Conferenza inoltre può avere un ruolo importante
nell’armonizzazione del sistema, attraverso lo scambio di documenti e di
informazioni sulla gran mole di questioni ancora irrisolte. Anche lo scambio di
informazioni e di competenze con le Conferenza dei presidenti e degli studenti
può essere molto fruttuoso. I presidenti hanno spesso competenze
tecnico-giuridiche che sono preziose. E il parere degli studenti, cui il nostro
lavoro è rivolto, è fondamentale. Molto meglio un’autoregolazione del sistema
sulla base della circolazione delle opinioni e delle competenze, che non il
continuo ricorso alle competenze di singoli funzionari del ministero.
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Cambiamo argomento. Un giudizio sull’ingresso dei privati
nell’AFAM.
Intanto va detto che il problema è molto più complicato nel
settore delle Accademie di belle arti, dove i soggetti che chiedono
l’accreditamento sono molti e talvolta di dubbia affidabilità. Per il settore
musicale hanno fatto richiesta per lo più istituti di buona reputazione: cito
per tutti gli ultimi “arrivi”, cioè la scuola di Fiesole e la Civica di Milano,
che tra l’altro non si può definire privata. Al di là di questo, è ovvio che non
si può negare ai privati la possibilità dell’accreditamento: è previsto dalla
legge. I problemi nascono dal fatto che si è concesso l’accreditamento senza una
definizione dei criteri generali necessari per farlo. L’accreditamento è stato
così concesso sulla base di valutazioni concernenti l’adeguatezza dei locali,
degli strumenti, e così via. Però questi istituti non hanno vincoli per il
reclutamento, e quindi possono fare una concorrenza “sleale” ai Conservatori
statali e non statali che invece hanno regole molto rigide e, aggiungerei,
anacronistiche.
Un vero problema, però, sta nel fatto che ci sono istituti
che chiedono l’accreditamento e poi utilizzano docenti dei Conservatori. Qui c’è
da fare un discorso serio, evidentemente spinoso. Va bene che le istituzioni
accreditate facciano sana concorrenza ai Conservatori. Ma non con i docenti
dipendenti dello Stato! Quello di avere i docenti propri, e non presi in
doppio incarico dai Conservatori, avrebbe potuto essere uno dei criteri per
l’accreditamento.
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E per ultimo veniamo all’argomento ANVUR, nella quale tu hai
un ruolo. Partirei dall’inizio: perché tanta paura dell’ANVUR?
Si ha spesso paura di ciò che non si conosce. Ma non c’è
ragione di aver paura. ANVUR lavora per far rientrare definitivamente l’AFAM nel
livello della formazione superiore. E lo fa applicando anche all’AFAM i criteri
che usa per l’università. Con le dovute differenze date dalla legge e nella
piena consapevolezza della “diversità” delle istituzioni di formazione artistica
e musicale.
C’è solo da chiarire che cosa l’ANVUR sta facendo per noi.
ANVUR in applicazione della legge (DPR 132/2003) sta dando indicazione ai Nuclei
di valutazione che in questi anni hanno lavorato senza criteri omogenei. ANVUR
invece non sta facendo alcuna valutazione esterna dei Conservatori, perché a
differenza che per l’università, la legge ancora non lo prevede.
ANVUR è anche intenzionata a fare un bando per avere al suo
interno un esperto AFAM e colmare così una lacuna più volte evidenziata, che ha
creato le condizioni per la nascita del temporaneo gruppo di lavoro AFAM di cui
faccio parte. Questo gruppo di lavoro ha individuato e selezionato gli aspetti
più rilevanti delle istituzioni AFAM e della loro attività al fine di creare un
monitoraggio che permetterà ai Nuclei di valutazione di svolgere l’analisi e la
propria relazione finale. Con il supporto informatico del CINECA inoltre questi
dati potranno mettere in trasparenza tutto il sistema AFAM e permettere a tutti
di conoscerlo meglio.
ANVUR ha inoltre fatto un censimento nei Nuclei stessi,
studiando la loro composizione e i curricoli dei loro membri. Ne sono sortiti
dati interessanti. Ci sono molti, forse troppi funzionari ministeriali nei
Nuclei di valutazione delle istituzioni. Essendo la relazione dei Nuclei rivolta
proprio al MIUR, questo dato mette in evidenza un possibile conflitto di
interessi. C’è inoltre una notevole disomogeneità nei curricoli dei componenti
dei Nuclei: qualche volta qualche membro sembra avere poco a che fare con la
valutazione, mentre dovrebbero essere tutti “esperti” della materia.
L’ANVUR
dovrebbe valutare le istituzioni AFAM, come le università?
Per quanto riguarda la valutazione esterna delle
istituzioni – che per l’università è operante – come detto poc’anzi nel caso
dell’AFAM non c’è ancora la norma di legge che la istituisca e che la
attribuisca ad ANVUR. L’ANVUR quindi nel nostro caso non fa nessuna valutazione
diretta delle istituzioni AFAM storiche.
Ma certamente senza una seria organizzazione nazionale del
sistema dell’autovalutazione (operata dai Nuclei di valutazione), e senza la
valutazione esterna della didattica, della ricerca e anche della produzione, non
potremo mai ambire ad entrare nel sistema universitario! Quindi auspico che al
più presto vengano definiti i compiti di ANVUR per valutare anche le istituzioni
AFAM.
Intanto dal questionario proposto ai Nuclei di valutazione
emergeranno elementi significativi, che saranno pubblici. Si tratta di dati più
dettagliati di quelli ordinariamente raccolti dall’Ufficio statistica del MIUR.
La raccolta dei dati sarà per certi campi più specifica di quella ordinariamente
effettuata dal Ministero che fornisce i dati per lo più in forma aggregata. E
spesso i dati pubblicati non sono corretti perché generati da risposte sbagliate
fornite dai Conservatori, per errore o per cattiva formulazione delle domande:
la materia è veramente molto complessa.
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Quindi, un bilancio.
In definitiva penso che la presenza di ANVUR nel nostro
settore possa accreditarne la titolarità di “formazione di terzo livello”
prevista dalla riforma. Torno a dire, il sistema si può difendere, purché lo si
articoli nei termini che ho detto prima. In più, i Conservatori producono
cultura, e spesso vivificano il proprio territorio in modo più sensibile della
stessa università. Hanno relazioni internazionali, e un “tasso di
internazionalizzazione” maggiore dell’università. Il rapporto con l’estero è,
per la musica, fisiologico. Occorre farlo capire ai politici.
Un
bilancio tutto positivo, dunque.
Occorre abbandonare la convinzione che ciò che noi pensiamo
di noi stessi corrisponda necessariamente a quello che gli altri devono
percepire di noi; bisogna abbandonare la diffidenza cronica verso le idee nuove.
Un pensiero di tipo corporativo ha bloccato per molti anni la discussione sugli
stessi temi e sulle stesse angolature in modo del tutto autoreferenziale. Il
confronto internazionale invece è severo.
Deve soprattutto maturare una nuova consapevolezza di
istituzione, che ha un proprio valore non solo come somma dei singoli interessi
delle singole parti che la compongono. Non riusciremo mai a garantire
l’interesse istituzionale, quindi di tutti, docenti, personale, studenti, utenti
con cui i Conservatori si confrontano, far diventare quindi i conservatori un
bisogno essenziale per la società, se continueremo ad affrontare le sfide che
ogni giorno la vita reale ci offre guardando sempre le cose sotto l’angolatura
di una sola parte!
Occorre quindi un cambiamento culturale profondo. Io sono
convinto che sia questa la strada da percorrere e la vera speranza per il futuro
del sistema.
dicembre 2013
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